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28 gennaio 2014

Fare senza meditare: la falsa privatizzazione di Poste Italiane


Il 25 gennaio, il Consiglio dei Ministri presieduto da Letta, ha approvato un decreto ministeriale per regolamentare la vendita del 40% delle azioni di Poste Italiane S.p.A.

Ha preso dunque il via il “piano privatizzazioni” annunciato dal Premier già a novembre dello scorso anno, attraverso cui generare un introito stimato di 12 miliardi nelle casse dello Stato, da impiegare in parte nella riduzione del debito pubblico. La vendita del 40% delle azioni di Poste Italiane, annunciata dal Ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni come il “piatto forte” del piano privatizzazioni, dovrebbe portare nelle casse dell’erario circa 4 miliardi di euro.

Ora, posto che il debito pubblico italiano ammonta a circa 2.070 miliardi di euro (stando ai dati Eurostat relativi al terzo trimestre del 2013, il debito è pari al 132% del PIL), non pare molto rassicurante constatare che il “piatto forte” di Saccomanni consenta di “aggredire” il debito, riducendo l’esposizione debitoria dello Stato dello 0,45%. Tale percentuale appare inadeguata ed insufficiente, essendo la riduzione del debito pubblico una delle priorità più impellenti del nostro Paese. Abbiamo bisogno di interventi strutturati e coordinati che permettano di incidere in maniera più significativa, senza tuttavia aggravare la situazione dei risparmiatori, già pesantemente afflitti dal regime di austerità imposto dalla politica degli ultimi anni.

Purtroppo, come succede spesso in Italia, la necessità di affrontare rapidamente e con decisione una situazione di emergenza, determina l’emanazione di provvedimenti, appunto “emergenziali”, che, adottati con l’onesto ma ingenuo proposito di ottenere un effetto immediato, si rivelano fallimentari ed anzi peggiorativi della condizione preesistente. Nella maggior parte dei casi, ciò avviene perché, per via delle pressioni sociali esterne e delle tempistiche ristrette, coloro che sono deputati all’elaborazione di strumenti per la risoluzione di un problema, agiscono in maniera irrazionale, senza studiare approfonditamente ed in maniera sistematica la natura dei mezzi a disposizione e degli effetti che l’impiego di quei mezzi, operato senza indugio, ma anche senza coordinazione, potrebbe effettivamente provocare.

Sebbene, astrattamente, la privatizzazione sia un ottimo mezzo da adoperare per generare risorse da destinare alla riduzione del debito pubblico, l’operazione consistente nella cessione del 40% di Poste Italiane presenta alcune criticità che lasciano dubitare che possa effettivamente produrre gli effetti sperati in termini di riduzione del disavanzo statale. Se è vero che una strategia di privatizzazione ben studiata è in grado di generare risultati positivi sia nel breve che nel medio-lungo periodo, nel caso del decreto sulle Poste, da un lato, non possiamo nemmeno parlare di “privatizzazione”, dall’altro, l’operazione è stata posta in essere senza tener conto della necessità di procedere preventivamente ad una separazione dei rami d’azienda costituenti la società (servizi postali in senso stretto, servizi bancari/finanziari e servizi commerciali), nonché ad una liberalizzazione degli stessi in vista della collocazione sul mercato e dell’annunciata quotazione in Borsa.

Esulando da qualsiasi dibattito tecnico-scientifico, per parlare di “privatizzazione” è necessario che avvenga un trasferimento della proprietà dell’ente da un soggetto pubblico a un soggetto privato. Trasferire la proprietà di una società di capitali, sostanzialmente, significa trasferire una partecipazione di quella società che sia in grado di permettere al l’acquirente di ottenerne il controllo e la gestione. Con la vendita del 40% delle azioni di Poste Italiane (di cui, peraltro, soltanto il 30% liberamente collocabili, essendo previsto che il 10% venga destinato alla sottoscrizione da parte dei dipendenti) non si è inteso procedere ad una vera e propria privatizzazione del servizio postale, in quanto la proprietà del pacchetto azionario che garantisce il controllo della società rimane in mano pubblica. L’operazione, così come delineata da Saccomanni, appare in realtà una vendita congiunta di pacchetti di minoranza finalizzati all’immediato ottenimento del corrispettivo della cessione delle partecipazioni per esigenze di cassa.

La governance, all’esito della procedura, dovrebbe rimanere sostanzialmente inalterata, così come l’apparato di norme pubbliche a tutela dell’attività di Poste Italiane che consente alla società di mantenere una certa redditività (tra le principali, la previsione di un trattamento fiscale agevolato per quanto riguarda l’IVA), il quale si traduce, di fatto, in aiuti di stato incompatibili con una privatizzazione, in quanto lesivi della libera concorrenza del mercato. La prospettiva di una futura attivazione di procedure d’infrazione da parte dell’Unione Europea per violazione degli artt. 107 e 108 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea è più che mai plausibile. L’art. 107 TFUE prevede espressamente che “sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”.

In ultima analisi, il “piatto forte” di Saccomanni, per tutti i motivi sopra esposti, risulta essere un pericoloso stratagemma che, lungi dal rivelarsi funzionale allo scopo per il quale è stato elaborato, e cioè per l’aggressione del debito pubblico, consentirebbe di ottenere un impercettibile vantaggio nel breve periodo (l’abbattimento dello 0,45% del deficit) ponendo però le basi per una perniciosa ricaduta che andrebbe, come sempre, a produrre i suoi devastanti effetti sugli investitori e sui risparmiatori.

Mutuando alcuni consigli dall’antica saggezza militaresca del Giappone feudale, Letta ed i suoi uomini dovrebbero tenere a mente che, pur essendo vero che, in tempi di urgenza, “una decisione andrebbe presa nello spazio di sette respiri”, resta altresì innegabile che “la corretta azione è il frutto di una corretta meditazione”.


David Mascarello

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