
Le varietà di queste
acque miracolose sono delle più varie: vi rientrano, a mo’ di esempio, stampanti
treddì, aumenti di spesa, vivisezioni di cani, dazi e barriere all’immigrazione.
Il rimedio per eccellenza, quello proposto in gran pompa da ormai tutta la
casta, consiste nell’abbandono della moneta unica europea, per ritornare alla
compianta Lira. Al lato “destro” dello schieramento, si propone un uscita
“tout-court” dalla moneta unica. Alla sinistra del PD, si vuole qualcosa di più
discreto, ovvero uscire solo dai trattati che limitano la possibilità di spesa.
Solo riacquistando la possibilità di spesa illimitata, si può ridare benessere
ai cittadini. Il MoViMento di Grillo cerca, come al solito, di tenere il piede
in due scarpe, e propone una via di mezzo ai due.
In questo articolo non
voglio discutere se l’abbandono dell’euro sarebbe conveniente o meno, tema gia
ampiamente discusso su questo ed altri blog. Più che altro, mi interessa
discutere una particolare proposizione della vulgata populista di cui sopra:
uscire dall’euro è davvero un bene per il
popolo, per l’italiano medio? Cerchiamo di capire perché la
casta, nella sua interezza, volle entrare nell’euro ad inizio anni novanta e
perché, nella sua interezza, voglia uscirne ora.
Ad inizio anni ’90,
l’Italia sta affrontando una importante crisi, che sfocerà con l’uscita del
paese dallo SME. Le incertezze sul futuro economico del paese, che aveva finanziato
la sua crescita negli anni precedenti creando uno dei debiti più consistenti
del pianeta, avevano portato un’impennata al livello dei tassi di interesse reali che gli investitori richiedevano
per acquistare titoli di stato Italiani. Da un lato, vi erano grossi dubbi sul
fatto che l’Italia fosse in grado di contenere la sua spesa pubblica:
dall’altro, si temeva che il governo avrebbe giocato sulla leva del cambio e
dell’inflazione per ridurre il valore del proprio debito. Il grafico sotto
mostra il problema: le aspettative degli investitori si stavano auto-avverando,
e l’Italia, dal ‘91 al ’96, paga tassi di interessi a reali a dieci anni fra il
5 e l’8%. Una situazione non sostenibile nel medio periodo.
Come riuscire a cambiare
le aspettative degli investitori? L’Italia aveva una sola opportunità per
farlo: aderire al progetto Euro. In quegli anni stava iniziando il disegno
della moneta unica. Aderirvi significava, oltre alla rinuncia all’utilizzo
della politica monetaria, grandi limiti a quella fiscale. I governi di allora
colsero la palla al balzo e, a suon di aumenti di tasse, patrimoniali, riforme
delle pensioni, riuscirono a convincere i nostri partner europei che l’Italia
era un paese riformabile. Quando divenne chiaro che l’Italia sarebbe entrata nell’euro,
i tassi di interesse crollarono, arrivando a sfiorare l’1% nel 2003. Quasi un
sesto del picco del ’95.
Ora, a vent’anni di distanza
dalla crisi del ’92, l’Italia rischia di dover uscire di nuovo dall’unione
valutaria europea. Con la crisi del debito sovrano ed i più stringenti vincoli
di Maastricht, l’Euro è diventato un vincolo alla spesa. Finora, come un cieco
uroboro, lo Stato è sopravvissuto divorando se stesso. Ma il gioco non regge
più. Non potendo alzare ulteriormente le tasse, e non essendo in grado di
riformarsi, l’unico modo che ha di finanziarsi è trasferire ricchezza dal
futuro, ovvero indebitarsi. Ma se la storia insegna qualcosa, non possiamo
aspettarci che quei soldi vengano usati a favore dei cittadini: al contrario,
verranno usati per dissetare l’insaziabile leviatano…fino alla prossima crisi.
Il 25, votare contro
l’Euro vuol dire votare contro l’unica tutela che il cittadino ha nei confronti
del proprio governo.
Giandomenico Ciccone
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