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19 febbraio 2014

Corruzione? Una legge in più e mille leggi in meno

Sono passate due settimane da quando la Commissione europea ha presentato al Consiglio ed al Parlamento europeo  la sua relazione sulla lotta alla corruzione. Come si è potuto apprendere dalle notizie di cronaca, la situazione italiana, minuziosamente descritta ed illustrata in un documento allegato al report, è a dir poco allarmante. Nonostante, secondo un recente sondaggio Eurobarometro, soltanto il 2% degli imprenditori intervistati dichiari di essere stato raggiunto da richieste di pagamento di tangenti, il 97% degli stessi percepisce la corruzione come un fenomeno diffuso e dilagante all’interno della nostro Paese.

Il costo della corruzione ai danni dello Stato è stato stimato dalla Corte dei Conti in una somma pari a 60 miliardi di euro e, dunque, a circa il 4% del PIL.  Operando un paragone con gli altri paesi dell’Unione, secondo quanto riportato dalle statistiche di Transparency International sulla trasparenza nel settore pubblico, basata sulla percezione della corruzione all’interno delle amministrazioni statali, l’Italia sarebbe confinata alle ultime posizioni, seguita soltanto da Bulgaria, Grecia e Romania. A prescindere dall’effettiva veridicità dei dati numerici, è senz’altro indiscutibile che il fenomeno, in Italia, rappresenti una vera e propria piaga sociale, che contamina trasversalmente ogni ambito della nostra comunità, da quello pubblico a quello privato, da quello produttivo a quello dei servizi. I risultati del report della Commissione europea appaiono significativi, anche in quanto lasciano intendere che la riforma operata con la legge 190 del 2012, recante la rubrica “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione” abbia, in verità, portato ben pochi risultati concreti.

Il primo motivo di inefficienza, legato alle modalità di redazione della legge, riguarda senz’altro la scarsa funzionalità della riforma, nella parte in cui ha introdotto l’ipotesi di reato della cd. corruzione tra privati. Il modo in cui è stata strutturata rende assolutamente inconcepibile un'emersione spontanea del fenomeno, ad esempio attraverso il meccanismo della denuncia: infatti, da un lato, sono puniti allo stesso titolo sia il corrotto che il corruttore; dall’altro, non sono previsti meccanismi che incentivino il corrotto al quale viene offerta una tangente o, viceversa, il soggetto che viene indotto dal funzionario a pagare una somma non dovuta per il compimento o l’omissione di un atto del proprio ufficio, a desistere dal compimento dell’illecito ed a denunziare l’accaduto. L’unico merito della l. 190/2012, in effetti, consiste nell’allungamento del termine di prescrizione e dell’inasprimento delle pene.
I membri delle numerosi associazioni che, negli ultimi anni, si sono formate per analizzare e contrastare il fenomeno, sono abbastanza concordi nel ritenere che tale inefficienza sia dovuta, aldilà della scarsa incisività della riforma, sostanzialmente, ad altri tre fattori.

Il primo motivo è così radicato nelle consuetudini della nostra penisola, da essere già stato individuato dal celebre storico Tacito, laddove ammoniva: “Corruptissima republica plurimae leges”. In effetti, un sistema giuridico come il nostro, denso di normative complesse, talvolta imprecise, spesso mal coordinate e in antinomia tra loro, aumenta, a favore di chi intende violare la legge, le possibilità di eludere con successo i suoi precetti. Come dice il prof. Davide Grignani, la complessità è l’humus della corruzione. 

Ciò appare tanto più vero, qualora si prenda in considerazione anche il secondo elemento che contribuisce, in qualche misura, alla proliferazione del fenomeno, vale a dire l’inefficienza della pubblica amministrazione. L’eccessiva burocratizzazione dei servizi pubblici rende assai poco snello il procedimento che il cittadino dovrebbe affrontare per ottenere il soddisfacimento di un proprio interesse, anche legittimo. In tal modo, si creano le condizioni affinché colui che si rivolge alla pubblica amministrazione, consapevole della sua lentezza ed inefficienza, preferisce, razionalmente, ricorrere alle tangenti per ottenere con rapidità e certezza ciò che intendeva richiedere.

Il meccanismo è simile a quello che molti conosceranno, per cui, in ambito sanitario, il soggetto privato che ha rapporti di amicizia o di conoscenza con il funzionario della struttura sanitaria, si rivolge direttamente a quest’ultimo per ottenere una riduzione dei tempi di attesa della visita, scavalcando il cittadino comune che, naturalmente, è inserito in una lista di attesa interminabile. Ovviamente, nel caso appena citato, non siamo in presenza di una vera e propria violazione di legge e, tanto meno, di un’ipotesi di corruzione, difettando, peraltro, l’esistenza di un’utilità o guadagno in favore del funzionario che permette al conoscente di “saltare la fila”. Quello che si vuole dire è che, con una pubblica amministrazione così lenta, inefficiente e burocratizzata, la verità è che razionalmente la corruzione conviene.

L’ultimo fattore, ancora una volta legato inscindibilmente ai due precedenti, è confermato anche storicamente da dati empirici: la pervasiva e capillare presenza dello Stato nelle principali attività economiche del Paese. La presenza di società pubbliche o la partecipazione pubblica in società di private di interesse strategico favorisce il verificarsi di conflitti di interessi ed altre situazioni in cui la scarsa trasparenza facilita la diffusione di clientelismi, tangenti, scambi di favori. In buona sostanza, quando la partecipazione statale nel prodotto interno lordo di un Paese supera una certa soglia, c'è una sorta di proporzionalità diretta tra l’ingerenza dello Stato e l’espansione della corruzione.

Probabilmente, accanto ad un'imprescindibile opera di semplificazione normativa, di snellimento dei procedimenti amministrativi e ad un piano di privatizzazione non improvvisato, per combattere con successo la corruzione è comunque necessaria una rivoluzione culturale. Resta chiaro, infatti, che in un Paese nel quale la considerazione sociale non dipende dal concetto di “merito” ma dalla capacità di accumulare denaro “a qualsiasi costo” e “con qualsiasi mezzo”, i vertici delle organizzazioni rappresentative delle associazioni di imprenditori e di industriali non fungono, come dovrebbero, da modelli e  prendono in considerazione quale strumento primario di giudizio il fatturato. La spiacevole contestazione di qualche giorno fa, mossa da Elkann a Della Valle (“Della Valle è un nano. Pensi a Tod’s che va male!”) lascia trasparire quanto questa mentalità sia profondamente radicata ai vertici del nostro sistema industriale.  “Ma che credibilità pensi di avere tu, considerato che io fatturo più di te?”

Per combattere la corruzione, prima ancora di ridurre il numero delle leggi, di trasformare la pubblica amministrazione in un apparato efficiente, di elaborare un piano di privatizzazioni, occorre, forse, cercare di diffondere l’idea che il conseguimento di un risultato assume valore autentico soltanto quando è la meritata conseguenza di un impegno serio.



David Mascarello

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