Sono passate due settimane da quando la Commissione europea
ha presentato al Consiglio ed al Parlamento europeo la sua relazione sulla lotta alla corruzione.
Come si è potuto apprendere dalle notizie di cronaca, la situazione italiana,
minuziosamente descritta ed illustrata in un documento allegato al report,
è a dir poco allarmante. Nonostante, secondo un recente sondaggio
Eurobarometro, soltanto il 2% degli imprenditori intervistati dichiari di
essere stato raggiunto da richieste di pagamento di tangenti, il 97% degli
stessi percepisce la corruzione come un fenomeno diffuso e dilagante
all’interno della nostro Paese.
Il costo della corruzione ai danni dello Stato è stato
stimato dalla Corte dei Conti in una somma pari a 60 miliardi di euro e,
dunque, a circa il 4% del PIL. Operando
un paragone con gli altri paesi dell’Unione, secondo quanto riportato dalle
statistiche di Transparency International sulla trasparenza nel settore
pubblico, basata sulla percezione della corruzione all’interno delle amministrazioni
statali, l’Italia sarebbe confinata alle ultime posizioni, seguita soltanto da
Bulgaria, Grecia e Romania. A prescindere dall’effettiva veridicità dei dati
numerici, è senz’altro indiscutibile che il fenomeno, in Italia, rappresenti
una vera e propria piaga sociale, che contamina trasversalmente ogni ambito
della nostra comunità, da quello pubblico a quello privato, da quello
produttivo a quello dei servizi. I risultati del report della
Commissione europea appaiono significativi, anche in quanto lasciano intendere
che la riforma operata con la legge 190 del 2012, recante la rubrica
“Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e
dell’illegalità nella pubblica amministrazione” abbia, in verità, portato ben
pochi risultati concreti.
Il primo motivo di inefficienza, legato alle modalità di
redazione della legge, riguarda senz’altro la scarsa funzionalità della
riforma, nella parte in cui ha introdotto l’ipotesi di reato della cd.
corruzione tra privati. Il modo in cui è stata strutturata rende assolutamente
inconcepibile un'emersione spontanea del fenomeno, ad esempio attraverso il
meccanismo della denuncia: infatti, da un lato, sono puniti allo stesso titolo
sia il corrotto che il corruttore; dall’altro, non sono previsti meccanismi che
incentivino il corrotto al quale viene offerta una tangente o, viceversa, il
soggetto che viene indotto dal funzionario a pagare una somma non dovuta per il
compimento o l’omissione di un atto del proprio ufficio, a desistere dal
compimento dell’illecito ed a denunziare l’accaduto. L’unico merito della l.
190/2012, in effetti, consiste nell’allungamento del termine di prescrizione e
dell’inasprimento delle pene.
I membri delle numerosi associazioni che, negli ultimi anni,
si sono formate per analizzare e contrastare il fenomeno, sono abbastanza
concordi nel ritenere che tale inefficienza sia dovuta, aldilà della scarsa
incisività della riforma, sostanzialmente, ad altri tre fattori.
Il primo motivo è così radicato nelle consuetudini della
nostra penisola, da essere già stato individuato dal celebre storico Tacito,
laddove ammoniva: “Corruptissima republica plurimae leges”. In
effetti, un sistema giuridico come il nostro, denso di normative complesse,
talvolta imprecise, spesso mal coordinate e in antinomia tra loro, aumenta, a
favore di chi intende violare la legge, le possibilità di eludere con successo
i suoi precetti. Come dice il prof. Davide Grignani, la complessità è l’humus
della corruzione.
Ciò appare tanto più vero, qualora si prenda in considerazione
anche il secondo elemento che contribuisce, in qualche misura, alla
proliferazione del fenomeno, vale a dire l’inefficienza della pubblica
amministrazione. L’eccessiva burocratizzazione dei servizi pubblici rende assai
poco snello il procedimento che il cittadino dovrebbe affrontare per ottenere
il soddisfacimento di un proprio interesse, anche legittimo. In tal modo, si
creano le condizioni affinché colui che si rivolge alla pubblica
amministrazione, consapevole della sua lentezza ed inefficienza, preferisce,
razionalmente, ricorrere alle tangenti per ottenere con rapidità e certezza ciò
che intendeva richiedere.
Il meccanismo è simile a quello che molti conosceranno, per
cui, in ambito sanitario, il soggetto privato che ha rapporti di amicizia o di
conoscenza con il funzionario della struttura sanitaria, si rivolge
direttamente a quest’ultimo per ottenere una riduzione dei tempi di attesa
della visita, scavalcando il cittadino comune che, naturalmente, è inserito in
una lista di attesa interminabile. Ovviamente, nel caso appena citato, non
siamo in presenza di una vera e propria violazione di legge e, tanto meno, di
un’ipotesi di corruzione, difettando, peraltro, l’esistenza di un’utilità o
guadagno in favore del funzionario che permette al conoscente di “saltare la
fila”. Quello che si vuole dire è che, con una pubblica amministrazione così
lenta, inefficiente e burocratizzata, la verità è che razionalmente la
corruzione conviene.
L’ultimo fattore, ancora una volta legato inscindibilmente
ai due precedenti, è confermato anche storicamente da dati empirici: la
pervasiva e capillare presenza dello Stato nelle principali attività economiche
del Paese. La presenza di società pubbliche o la partecipazione pubblica in
società di private di interesse strategico favorisce il verificarsi di
conflitti di interessi ed altre situazioni in cui la scarsa trasparenza
facilita la diffusione di clientelismi, tangenti, scambi di favori. In buona
sostanza, quando la partecipazione statale nel prodotto interno lordo di un Paese
supera una certa soglia, c'è una sorta di proporzionalità diretta tra
l’ingerenza dello Stato e l’espansione della corruzione.
Probabilmente, accanto ad un'imprescindibile opera di
semplificazione normativa, di snellimento dei procedimenti amministrativi e ad
un piano di privatizzazione non improvvisato, per combattere con successo la
corruzione è comunque necessaria una rivoluzione culturale. Resta chiaro,
infatti, che in un Paese nel quale la considerazione sociale non dipende dal
concetto di “merito” ma dalla capacità di accumulare denaro “a qualsiasi costo”
e “con qualsiasi mezzo”, i vertici delle organizzazioni rappresentative delle
associazioni di imprenditori e di industriali non fungono, come dovrebbero, da
modelli e prendono in considerazione quale
strumento primario di giudizio il fatturato. La spiacevole contestazione di
qualche giorno fa, mossa da Elkann a Della Valle (“Della Valle è un nano. Pensi
a Tod’s che va male!”) lascia trasparire quanto questa mentalità sia
profondamente radicata ai vertici del nostro sistema industriale. “Ma che credibilità pensi di avere tu,
considerato che io fatturo più di te?”
Per combattere la corruzione, prima ancora di ridurre il
numero delle leggi, di trasformare la pubblica amministrazione in un apparato efficiente,
di elaborare un piano di privatizzazioni, occorre, forse, cercare di diffondere
l’idea che il conseguimento di un risultato assume valore autentico soltanto
quando è la meritata conseguenza di un impegno serio.
David Mascarello
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