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23 maggio 2014

Euro tutela contro il Leviatano

In concomitanza con le elezioni europee, si sta inasprendo il dibattito attorno alle cause del pluridecennale declino italiano. Ogni partecipante alla campagna elettorale ha un sua ricetta particolare che, se applicata, riporterebbe crescita e benessere al paese.

Le varietà di queste acque miracolose sono delle più varie: vi rientrano, a mo’ di esempio, stampanti treddì, aumenti di spesa, vivisezioni di cani, dazi e barriere all’immigrazione. Il rimedio per eccellenza, quello proposto in gran pompa da ormai tutta la casta, consiste nell’abbandono della moneta unica europea, per ritornare alla compianta Lira. Al lato “destro” dello schieramento, si propone un uscita “tout-court” dalla moneta unica. Alla sinistra del PD, si vuole qualcosa di più discreto, ovvero uscire solo dai trattati che limitano la possibilità di spesa. Solo riacquistando la possibilità di spesa illimitata, si può ridare benessere ai cittadini. Il MoViMento di Grillo cerca, come al solito, di tenere il piede in due scarpe, e propone una via di mezzo ai due.
In questo articolo non voglio discutere se l’abbandono dell’euro sarebbe conveniente o meno, tema gia ampiamente discusso su questo ed altri blog. Più che altro, mi interessa discutere una particolare proposizione della vulgata populista di cui sopra: uscire dall’euro è davvero un bene per il popolo, per l’italiano medio? Cerchiamo di capire perché la casta, nella sua interezza, volle entrare nell’euro ad inizio anni novanta e perché, nella sua interezza, voglia uscirne ora.

Ad inizio anni ’90, l’Italia sta affrontando una importante crisi, che sfocerà con l’uscita del paese dallo SME. Le incertezze sul futuro economico del paese, che aveva finanziato la sua crescita negli anni precedenti creando uno dei debiti più consistenti del pianeta, avevano portato un’impennata al livello dei tassi di interesse reali che gli investitori richiedevano per acquistare titoli di stato Italiani. Da un lato, vi erano grossi dubbi sul fatto che l’Italia fosse in grado di contenere la sua spesa pubblica: dall’altro, si temeva che il governo avrebbe giocato sulla leva del cambio e dell’inflazione per ridurre il valore del proprio debito. Il grafico sotto mostra il problema: le aspettative degli investitori si stavano auto-avverando, e l’Italia, dal ‘91 al ’96, paga tassi di interessi a reali a dieci anni fra il 5 e l’8%. Una situazione non sostenibile nel medio periodo.
Come riuscire a cambiare le aspettative degli investitori? L’Italia aveva una sola opportunità per farlo: aderire al progetto Euro. In quegli anni stava iniziando il disegno della moneta unica. Aderirvi significava, oltre alla rinuncia all’utilizzo della politica monetaria, grandi limiti a quella fiscale. I governi di allora colsero la palla al balzo e, a suon di aumenti di tasse, patrimoniali, riforme delle pensioni, riuscirono a convincere i nostri partner europei che l’Italia era un paese riformabile. Quando divenne chiaro che l’Italia sarebbe entrata nell’euro, i tassi di interesse crollarono, arrivando a sfiorare l’1% nel 2003. Quasi un sesto del picco del ’95. 


Il paese, a costo di grandi sacrifici, era salvo. Il crollo del tasso di interesse aveva portato grandi risparmi di spesa, data la mole consistente del nostro debito pubblico. Purtroppo, l’allentamento della disciplina imposta dai mercati finanziari, e l’arrivo di un cospicuo dividendo già pagato dagli italiani a suon di balzelli, congelò le azioni prese dai nostri governi per risanare il paese. Come mostrano i grafici successivi, la produttività langue, il deficit si allarga, e la spesa ordinaria aumenta specularmente a fronte della riduzione della spesa per interessi. In soldoni, il “dividendo dell’Euro” viene usato dalla casta per mantenere in piedi un baraccone corrotto ed inefficiente, foraggiando i vari Lusi, Batman e Belsito.  


Ora, a vent’anni di distanza dalla crisi del ’92, l’Italia rischia di dover uscire di nuovo dall’unione valutaria europea. Con la crisi del debito sovrano ed i più stringenti vincoli di Maastricht, l’Euro è diventato un vincolo alla spesa. Finora, come un cieco uroboro, lo Stato è sopravvissuto divorando se stesso. Ma il gioco non regge più. Non potendo alzare ulteriormente le tasse, e non essendo in grado di riformarsi, l’unico modo che ha di finanziarsi è trasferire ricchezza dal futuro, ovvero indebitarsi. Ma se la storia insegna qualcosa, non possiamo aspettarci che quei soldi vengano usati a favore dei cittadini: al contrario, verranno usati per dissetare l’insaziabile leviatano…fino alla prossima crisi.

Il 25, votare contro l’Euro vuol dire votare contro l’unica tutela che il cittadino ha nei confronti del proprio governo.


Giandomenico Ciccone

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