Dopo il ritiro del decreto detto Salva-Roma da parte del
governo, è ritornata in auge la “telenovela” riguardante il destino finanziario
della capitale. Tutto nasce nella primavera del 2013 quando, in piena campagna
elettorale, la compagnia di rating Fitch rende note le sue analisi a proposito
dei conti della capitale: l’amministrazione Alemanno lascia in eredità un
aumento del debito, lungo il quinquennio 2008-2013, pari ad un miliardo di
euro. È il dissesto.
Roma non è nuova a problemi finanziari. Vi era già incappata
nel 2008, quando, per far fronte ad un buco dell’ordine di 8 miliardi di euro,
il governo Berlusconi, in deroga alla legge, trasferisce il debito della
capitale ad una struttura governativa creata ad hoc – in pratica, una sorta di
Bad Company. A capo della stessa, viene messa il neoeletto Alemanno, in barba
ad ogni basilare principio sui conflitti di interessi. Questo ha permesso alla
gestione ordinaria di restare libera da vincoli. Incredibilmente, questa
libertà è stata usata per creare nuovo debito.
La richiesta del neo-sindaco Marino è quella di poter
spostare il nuovo debito contratto dalla precedente giunta Alemanno – che
Marino quantifica in “soli” 836 milioni – allo stesso organo commissariale già
usato per salvare Roma nel 2008. D’altronde, perché Alemanno si e lui no?
Arriva addirittura a minacciare, nel caso le sue richieste non vengano accolte,
di “bloccare la città”, dato che non avrà i soldi per pagare i dipendenti che
lavorano per il comune!
La procedura per gestire gli enti locali in dissesto,
tuttavia, è radicalmente diversa. Il “Testo Unico sulle Autonomie Locali”
prevede che un ente sia dichiarato “in dissesto” nel caso lo stesso non possa ”garantire
l'assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili ovvero esistono nei
confronti dell'ente locale crediti liquidi ed esigibili di terzi cui non si
possa fare validamente fronte.” A questo punto, l’ente deve richiedere il commissariamento, e perde sostanzialmente la
propria autonomia di bilancio. L’erogazione dei servizi essenziali non viene
comunque messa in discussione – anzi, il commissariamento ha come uno degli
obbiettivi quello di garantire l’erogazione dei medesimi.
Le minacce di Marino,
perciò, suonano più che altro come un bluff. Non si capisce inoltre perché Roma
non debba essere commissariata, dato che il sindaco stesso ammette che
sussistono le condizioni che rendono necessario
il commissariamento. La posizione di Marino risulta anche poco comprensibile
dato che, essendo ad inizio mandato, nessuno può ragionevolmente attribuirgli
le colpe del dissesto. Potrebbe essere un maniera di tutelare i propri
cittadini da un possibile aumento di tasse -
a discapito, ovviamente, dei cittadini delle amministrazioni virtuose.
La perdita di sovranità del comune di Roma, tuttavia,
potrebbe avere conseguenze indesiderate per il neo-sindaco ben più gravi. Roma,
stando a quanto scrive Rizzo sul Corriere il 7 Gennaio, vanta una platea
sterminata di partecipazioni, società controllate e investimenti in pacchetti
azionari. Secondo i dati riportati dall’autore, la capitale vanta “Ventisei
società, più una marea di controllate: oltre cinquanta quelle di Acea (energia
e acqua), Ama (rifiuti) e Atac (trasporti).” Il quadro risulta ancora più
sconcertante leggendo i dati sull’occupazione: soltanto i dipendenti diretti
del comune ammontano a 25.000, cifra paragonabile ai 26.800 dei dipendenti Fiat
Fabbrica Italia. Quelli delle partecipate comunali ammontano invece a ben
37.000 (stando ai dati sempre forniti da Rizzo, circa l’85% sono impiegati
proprio in Acea, Ama e Atac). Il commissariamento di Roma, potrebbe comportare
severi tagli a questa jungla di partecipazioni: ipotesi verosimilmente poco
gradita a Marino, che già si era opposto alla cessione di ACEA.
La presa di posizione di Marino sembra più che altro un
tentativo di “tirar la giacchetta” a “mamma-stato” perché, ancora una volta,
chiuda un occhio sulle bad-practice portate avanti dalla classe dirigente
capitolina, e gli consenta di avere le mani libere nel gestire i propri conti
e, più in particolare, di continuare ad usare quel dispendioso parco giochi per
politici che è costituito dalle società partecipate. Tutto questo, a discapito
dei cittadini delle amministrazioni virtuose, che si ritroveranno, ancora una
volta, a pagare il conto.
Giandomenico Ciccone