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31 dicembre 2013

Fondi Strutturali Europei, l’ennesima storia tutta Italiana.

A Partire dal 2000, ma in modalità differenti fin dal trattato di Maastricht, tutti i membri dell’Unione Europea hanno ottenuto fondi strutturali per lo sviluppo interno all’Unione. Nel settennato 2007-2013 l’Italia però ne ha usati solo il 40%.

6 miliardi – Tra le centinaia di leggi che il Governo Letta ha inserito nell’ormai tanto discusso “decreto milleproroghe” è comparsa, all’ultimo, anche una norma che salva 6,2 miliardi di fondi Europei destinati a tornare il 1 Gennaio 2014 a Bruxelles. Fino a due giorni fa, infatti, a causa di una classe politica ormai inesistente e di una burocrazia sempre più inefficiente, questi 6,2 miliardi, cifra di non poco conto in tempi di crisi come questi, sembravano essere scomparsi e nessuno, tra governo e opposizione, sembrava essersi accorto di questa anomalia. In un periodo in cui l’Euro e l’Unione Europea vengono quotidianamente additati come capro espiatorio di tutti i male, la mossa di non utilizzare i fondi strutturali Europei risulta non solo essere una decisione stolta e poco saggia ma addirittura rischia di essere contro-producente. Anche in questo caso, nonostante il governo si sia “salvato” in extremis dall’ennesima figuraccia Europea, a cui da anni a questa parte noi poveri italiani siamo abituati, l’autogoal è abbastanza pesante e le critiche a tale incapacità doverose.

Fondi Strutturali Europei – L’Italia, infatti, gode dei Fondi Strutturali Europei, fin dalla firma del Trattato di Maastricht. E’ fin dal 1993 che i membri aderenti all’Unione Europea ricevono dei fondi dal governo centrale di Bruxelles al fine di eliminare le profonde differenze tra le regioni più ricche e le aree meno avvantaggiate economicamente e socialmente. Tra il 1993 ed il 1999 i fondi furono pochi ma con l’avvento dell’unione monetaria i soldi messi a disposizioni per gli stati membri al fine di creare una comunità europea più omogenea e per la voglia di raggiungere nel lungo periodo una forma politica pienamente federata sono notevolmente aumentati. Tra il 2000 ed il 2006 i Fondi Strutturali Europei ammontavano a 195 Miliardi di Euro, mentre tra il 2007 e il 2013, tali politiche hanno toccato i 347 Miliardi. Il prossimo settennato, 2014-2020, vedrà i 28 paesi dell’Unione Europea impossessarsi di ulteriori 325 miliardi. L’Italia è riuscita sempre ad ottenere molti stanziamenti (circa 29 miliardi tra il 2000 ed il 2006, 50 miliardi tra il 2007 ed il 2013 e 32 miliardi tra il 2014 ed il 2020) ma, poi, come sempre accade, i governi non sono capaci di spendere i soldi, finanziamenti che spesso non vengono nemmeno richiesti!

Tra Soldi persi… – Tutti i vari governi che si sono succeduti nel corso di questi ultimi 13 anni hanno fatto a gara ad utilizzare meno Fondi Strutturali possibili. Se però tra il 2000 ed il 2006 i soldi utilizzati erano in linea con la media europea, circa il 50%, il che vuol dire che il nostro paese non utilizzò più di 10 miliardi di Euro, nel corso di questi ultimi 7 anni l’Italia ha fatto un uso pessimo dei finanziamenti europei utilizzandone solo il 40,6%, cioè meno di 20 miliardi su 50 disponibili. La media europea è stata del 53% e tra gli stati che hanno speso meno e peggio di noi troviamo solo Bulgaria (40,1%) e Romania (26%). La Germania ha speso circa il 61% dei soldi ricevuti (meno di quelli avuti dall’Italia), mentre la Francia ha speso il 52% dei finanziamenti avuti.

…e Soldi spesi male! - I sei miliardi che rischiavano di essere persi quest’anno e che il governo, leccandosi l’ennesima ferita, ha detto che spenderà per il “mondo del lavoro”, sono solo la punta di un iceberg che, giorno dopo giorno, diventa sempre più grosso e pericoloso da controllare. Il governo sembra un Titanic fuori controllo incapace di evitare il disastro. Tra il 2007 e l’anno che sta volgendo al termine il nostro paese ha fatto a meno di 30 miliardi di Euro e ha speso i restanti 20 miliardi richiesti in “modo poco efficiente, finanziando troppi progetti in maniera sbagliata” come ha più volte sottolineato nel corso di questi ultimi anni il Commissario europeo alle politiche regionali Johannes Hahn. Le regole inoltre sono chiarissime, che spende poco rischia di vedersi ridurre gli stanziamenti per il settennato successivo.

Considerazioni - Lasciando un attimo da parte i soldi tornati a Bruxelles tra il 2000 ed il 2006, i 30 miliardi non utilizzati dai vari governi Italiani corrispondono ad una cifra molto importante che potrebbe essere paragonata circa 8 volte l’IMU (argomento ricorrente del 2013), a circa 7 volte il salvataggio a spese dei contribuenti italiani di Alitalia e, come scriveva poco più di un anno fa il Sole24Ore, una cifra simile potrebbe essere utilizzata per ridurre la pressione fiscale di più di 5 punti percentuali.

Ovviamente queste sono solo teorie molto ipotetiche che puntano solo a far notare il valore di tutti i miliardi mai richiesti e/o utilizzati dai governi che si sono succeduti. I Fondi Strutturali Europei (che non vengono calcolati in modo diretto sul rapporto Deficit/Pil e Debito/Pil in quanto finanziamenti europei) vengono stanziati ogni anno con lo scopo ben preciso di continuare a sostenere una specifica politica di coesione economica e sociale che permetta ai paesi che un reddito pro capite inferiore alla media europea di poter recuperare rispetto agli altri concittadini europei.

Ancora una volta, dopo aver analizzato la mediocrità della politica Italiana, la domanda che ci si pone è la seguente: è davvero colpa degli altri se non riusciamo a portare a termine anche le più semplici politiche economiche e sociali cofinanziate dall’Unione europea?
La speranza come sempre è l’ultima a morire e si spera che le cose non potranno che migliorare ma rispondere alla domanda appena formulata lascia davvero sconcertati…

Giovanni Caccavello

30 dicembre 2013

Napolitano: gli spettri di un dejà vu

Secondo una scoop di Marzio Breda, quirinalista del Corriere della Sera, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano potrebbe rassegnare le proprie dimissioni tramite il tradizionale discorso di fine anno, peraltro più breve rispetto agli altri sette tenuti. L'idea di dimettersi sarebbe trapelata già il 16 dicembre durante l'incontro con i capigruppo del parlamento, visto il latitare delle riforme istituzionali per cui lo stesso Napolitano avrebbe accettato la temporanea riconferma al Quirinale.

Interessante sarebbe quindi valutare e riflettere su cosa potrebbe accadere in caso di un vero e proprio fulmine a ciel sereno come le dimissioni della più alta carica dello Stato. Osservando il panorama politico di oggi pare di assistere ad una situazione pressoché identica rispetto allo stesso periodo di un anno fa. Si nota infatti un Governo, sostenuto da una maggioranza ancora relativamente ampia, che persegue un tipo di politica molto simile a quella portata avanti da Mario Monti; Berlusconi che decide a giochi in corso di porre fine al sostegno a Letta, passando all'opposizione ed elezioni, stavolta europee, imminenti. Unici due elementi che potrebbero destabilizzare la situazione stagnante a cui si sta assistendo sono un segretario spaccapartito nei democratici come Matteo Renzi e il Movimento 5 Stelle .

A costo di rendersi impopolari a coloro che leggeranno questo articolo e senza dubbio avversano o non hanno una buona opinione sui partiti tradizional , viene da immaginare che l'unica soluzione in caso di dimissioni del Presidente della Repubblica, sia un accordo tra "renziani"della prima ora, che pure sono un numero consistente nelle camere, e i pentastellati. Nonostante la diversità di vedute, le due parti dovrebbero quantomeno raggiungere un accordo per l'elezione di un nuovo Capo dello Stato che possa sbloccare questa situazione di impasse, la sfiducia al Governo in carica e l’accordo su un breve governo di scopo che possa consegnare una legge elettorale che consenta governabilità al paese.

Appare infatti decisamente intuitivo che l'attuale esecutivo abbia ben poco interesse a modificare la legge elettorale vigente, ora proporzionale pura dopo la dichiarazione di incostituzionalità di parte del Porcellum. In tal modo si lascia logorare nell'attesa lo scalpitante neo segretario del Partito Democratico che anche ieri ha lanciato un aut aut alle larghe intese, per accelerare l’approvazione delle riforme chiave.
Questo quindi ciò che potrebbe accadere nel caso di una mossa di questo tipo da parte di Napolitano. In caso contrario, per uscire da questo tunnel ci si dovrà solo affidare al "Partito Che Non C'è".


Nicolò Guicciardi

29 dicembre 2013

Fallite str….! Il guru lo vuole

Tranquilli, non ce l'ho con voi, e non vi sto nemmeno chiedendo di farlo sul serio, seriamente parlando non converrebbe, né a me che scrivo né a voi che leggete. Il motivo del titolo è piuttosto semplice: andando a rovistare negli articoli passati - attività molto utile per pararsi dalla schizofrenia di taluni predicatori - ho ritrovato quelli sul famoso rapporto Mediobanca. Ebbene sì: saremmo dovuti fallire il 22 Dicembre…ma evidentemente non è successo.


La storia è sostanzialmente questa: a giugno Mediobanca Securities ha fatto circolare tra i sui clienti un report a firma di Antonio Guglielmi in cui si analizzava la differenza di rendimento tra titoli di pari scadenza a rischio ristrutturazione e non, e di conseguenza si avanzavano alcune proposte di aggiustamento. Secondo Guglielmi tale scostamento sarebbe stato un potenziale indicatore del "rischio fallimento" dell'Italia. Il 22 dello stesso mese usciva quindi un'esclusiva del Fatto Quotidiano. L'articolo di Stefano Feltri era tutto sommato equilibrato, si limitava a riportare il contenuto del rapporto rimanendo nel suo ambito e non sconfinando mai in predizioni catastrofiche. Il titolista invece non l'ha pensata allo stesso modo e ci siamo beccati una prima (prima!) pagina che a caratteri cubitali evidenziati in rosso diceva:
Avete capito? L'Italia è in bancarotta. O almeno questo sarebbe dovuto accadere entro sei mesi a partire dal 22 Giugno 2013. Cominciamo a contare, 22 Giugno + sei mesi = 22 Dicembre. Al diavolo, il fattaccio è successo proprio mentre ero in fila per pagare i regali di Natale e la cassiera non si è nemmeno degnata di comunicarmelo.
Ora si potrebbe dire: "ma dai, cerca di capire, FQ non intendeva bancarotta in quel senso, poi nell'articolo…" no, le parole sono importanti: se un'affermazione esprime un'eventualità incerta tale deve rimanere, pure nei titoli. Non provateci nemmeno a trasformare probabilità in certezza e viceversa. Anche perché poi è quest'ultima che la gente percepisce maggiormente: lo dico per esperienza personale essendomi dovuto sorbire a suo tempo discorsi come "ma sì, siamo in default, lo dicono pure fonti autorevoli.." (immaginatevi il vostro interlocutore col sorrisetto soddisfatto di quello che lui sì la sa lunga). Per non parlare di quanto si è scatenato poi sulla stampa e su internet, da chi si limitava a riportare lo scoop fino a chi lo usava per elucubrare il fallimento certo, o per gridare agli speculatori alle porte. Sorvoliamo. E’ una pagina triste della nostra storia, anche se poi il tanto parlare è stato così significativo che oggi nessuno manco se lo ricorda, sorprendente eh?

Purtroppo non finisce qui. In Italia, il sottobosco di aspiranti Nostradumbass (definizione di Noah Smith: Nostradamus che fa predizioni al limite della fessaggine, dumbass) è vasto. Il principe dei Nostradumbass è BG, Beppe Grillo. Ecco alcune delle sue predizioni:

- Marzo 2013, intervistato a Focus afferma: "Ai vecchi partiti do ancora sei mesi e poi è finita, a quel punto non riusciranno più a pagare né le pensioni, né gli stipendi pubblici". I sei mesi sono passati da un bel pezzo e pensioni e stipendi sono ancora al loro posto. Allora BG quella volta ha detto una cosa vera o falsa? Lascio a voi.

- fine Aprile 2013, intervistato a Bild annuncia: "L'Italia in autunno va in bancarotta […] Fra settembre e ottobre finiranno i soldi e sarà difficile pagare pensioni e stipendi". Ancora, settembre e ottobre sono passati e nulla, non sì è avverata la previsione di BG.

- tralascio quelle vaghe e indefinite, il volenteroso ne trova a bizzeffe, e non toccano solo il default dell'Italia, a volte toccano pure l'INPS, che secondo il nostro tra tre-quattro anni non sarà più in grado di pagare le pensioni. Buffo che a fronte di questa situazione disastrosa BG prometta di erogare un reddito di cittadinanza, usando appunto le presunte plusvalenze dal taglio delle pensioni alte.
- vi lascio invece il gusto di rimanere in trepida attesa del "verificarsi" della prossima: a novembre il blog di BG ha ospitato un'intervista de lantidiplomatico.it a Pitchard in cui si prevede il collasso dell'Italia nel 2014 (scadenza golosa dato che a maggio ci saranno le elezioni).
Che dite, speranza di indovinare a forza di ripetere il tentativo o macabra strategia della tensione?

Lasciamo BG e passiamo a Loretta Napoleoni: era novembre 2011 e doveva presentare un libro. Allora il nostro paese avrebbe dovuto seguire le sorti della Grecia entro Natale (2011) o Pasqua (2012). Ma non preoccupatevi, Loretta aveva pure la soluzione giusta: ritirare tutti i soldi dai conti corrente e stare cash fino a marzo. Per non fallire sarebbe servita una manovra da 800 miliardi: una patrimoniale per garantire la metà del debito pubblico nelle mani degli italiani, tassando al 5% l'1% più ricco che detiene il 45% della ricchezza totale (pensavo che quel 45% fosse detenuto dal 10%, non dall'1%), cioè 70 famiglie (no, scusate, l'1% della nostra popolazione sono circa 600.000 persone, stando a lei ognuna di queste famiglie sarebbe composta da 8500 individui). I conti non tornano, però questa è un’altra storia.

Ma si sa, costoro il default lo vogliono, sia per mancanza di altri argomenti validi, sia perché il marketing macabro attira sempre (apocalisse Maya docet), sia perché stanno replicando la strategia di BS del nemico esterno. Intanto noi vediamo di stare alla larga da certi figuri e di ricordare le cialtronerie che vanno raccontando. Purtroppo, anche persone più stimate, del calibro di Roubini, ci si sono lanciate a capofitto: "E' sempre più chiaro che il debito pubblico italiano è insostenibile ed ha bisogno di una ristrutturazione ordinata per prevenire un default disordinato" a Novembre 2011. Salvo che a marzo diceva cose leggermente discordanti.

Mi fermo qui, la lista è interminabile e dopo un po' risulterebbe pure noiosa. L'economia non è tirare a indovinare la data in cui si verificherà un dato evento, piuttosto è studiare le dinamiche del sistema in cui siamo immersi e cercare di capire le leggi che lo governano. D'altronde facciamo un esempio: cosa vi aspettereste da un ingegnere? Che vi spieghi il funzionamento della macchina che guidate o che venga a prevedere giorno e ora del prossimo guasto? Ecco, se gli chiedete la seconda vi ride in faccia. Peggio ancora se gli chiedete previsioni banali e vaghe: ricordate che l’analogo di “Siamo in default anche se nessuno ce lo viene a dire, è solo questione di tempo” è “la macchina che guidate si guasterà prima o poi”. Inutile, non serve a niente se non ad avere la soddisfazione immeritata di rinfacciare un “io l’avevo detto”.

Tirando le somme: il mondo è pieno di casualità statistiche e fatti inevitabili e risaputi. Ma gli uomini sono pieni di pregiudizi, la necessità dell'illusione di capire, ed il bisogno di credere nei saggi. Puoi approfittare di questi due fatti e diventare un saggio rispettato senza dover mai studiare seriamente. Bella vita, quella del Nostradumbass.

28 dicembre 2013

Salvo Romano Impero

È da poco stato approvato alla Camera dei Deputati il decreto cosiddetto "Milleproroghe" che, oltre a prevedere misure complessive che ammontano a 6 miliardi di euro riguardanti il capitolo lavoro, comprende buona parte del decreto "salva Roma”, ideato per il ripianamento del bilancio del comune capitolino e bocciato qualche giorno fa dalla Camera.

Tale provvedimento conferma il travaso di 500 milioni di euro, previsto per la gestione commissariale, e l'aumento dell'addizionale Irpef di un ulteriore 0,3% che, sommata all'aliquota attuale dello 0,9%, vede quindi un aumento complessivo dell'1,2%: un vero e proprio salasso per i cittadini romani.
Focalizzandosi però sul primo punto saliente indicato nel decreto, ossia i 500 milioni di euro destinati al ripianamento del bilancio del Campidoglio, verrebbe da riflettere sulla questione del federalismo di cui ormai da anni si sente discutere. Ci si chiede appunto a che titolo la malagestione delle finanze comunali della capitale debba gravare su tutti gli italiani che pagano le tasse , siano questi di Milano o di Palermo. Il federalismo fiscale non deve in alcun modo essere macchiato da discriminazioni territoriali, proprie di alcuni slogan proto-leghisti dei primi anni novanta.

Tornando sui pasticci del comune di Roma, uno degli episodi più scandalosi che salta in mente è il caso dei biglietti duplicati dell'azienda di pubblico trasporto ATAC su cui è doveroso fare qualche considerazione. Secondo l'ultima nota dell'ufficio stampa di Confindustria, il cosiddetto "capitalismo di Stato" prevede costi di gestione che si attestano sui 23 miliardi di euro, pari all'1,4 % del PIL. Senza lanciarsi in generalizzazioni fini a se stesse, sappiamo bene che  queste società a partecipazione pubblica, a partire dall’ATAC, spesso servono solo all'elargizione di posti di lavoro, utili ai politici locali per mantenere consenso elettorale. Nella maggior parte dei casi non hanno nemmeno rendite significative. Anzi, nel 2012 più di un terzo di questi enti risultava in perdita, per un ammontare complessivo di 4 miliardi di euro. Oneri a cui il nostro paese, specialmente in questo periodo difficile, non può certo permettersi di far fronte. 

Immaginiamo di recuperare la totalità di questi complessivi 23 miliardi tramite privatizzazioni e/o dismissioni. Quanti obiettivi, che a prima vista sembrano irrealizzabili in tempi brevi, si potrebbero raggiungere? Una buona parte, sicuramente.


Nicolò Guicciardi

27 dicembre 2013

La colpa è nostra, non dell’Euro

In queste ultime settimane abbiamo assistito ad un'enciclopedia di interventi mediatici sia a favore che contro l’Euro. Da mesi economisti, giornalisti e politici si prodigano in discorsi che hanno molti punti deboli e quasi sempre finiscono con l’essere graditi dalla pancia di molti “italioti”, ma non dal cervello di chi studia l’economia giornalmente. Tutti questi giullari mediatici spiegano, utilizzando ragionamento e approccio sbagliati, come l’uscita dall’Euro sia il rimedio a tutti i mali e ci raccontano che, se l’Italia tornasse alla Lira, tornerebbe ad esportare di più, avrebbe una bilancia commerciale positiva e sarebbe molto più competitiva di tutti i paesi del mondo messi insieme: alla faccia della Germania, brutta e cattiva.

Lasciatemi dire che tutti questi economisti danno l’impressione di avere una visione economica limitata, soprattutto da un punto di vista temporale. Nel corso di questi ultimi trent’anni il mondo è cambiato a causa della globalizzazione. Che piaccia a meno, l’Italia del 2013 non si trova più a dover competere a livello internazionale con pochi paesi come è avvenuto per quasi tutta la seconda metà del secolo scorso. A partire dalla fine degli anni ’80, il mondo si è trasformato e le vecchie potenze occidentali si sono gradualmente trovate a competere con i paesi emergenti. Verso la metà degli anni ’90, il mondo vide la crescita esponenziale delle “tigri asiatiche”, mentre oggi si assiste al frenetico sviluppo dei BRICS. Al contrario di quanto accadeva venticinque anni fa, l’Italia si trova a dover competere “contro” decine di paesi, già avvantaggiati nelle condizioni attuali e praticamente impossibili da avvicinare in caso di un abbandono dell’Euro e dell’Unione Europea. La globalizzazione dovrebbe essere la sfida più intrigante da affrontare in un mondo sempre più libero, interconnesso e unico e non la paura da cui nascondersi.

Nel corso dei primi 9 anni di moneta unica, se consideriamo anche il periodo 1999-2001 (biennio in cui l’Euro veniva utilizzato per le transazioni finanziarie) tutti i dodici paesi che decisero di dotarsi di un'unione monetaria europea videro migliorare sensibilmente la maggior parte dei loro principali dati macroeconomici. Prendendo in considerazione il nostro paese, è vero che il pil crebbe solo dello 0,4% annuo, ma la modesta crescita è il risultato di una forte pressione fiscale interna e delle riforme strutturali mai affrontate. D’altro canto, l’inflazione, il tasso di interesse sui titoli di stato, il debito pubblico e la disoccupazione migliorarono in modo sensibile. Tralasciando lo scoppio della crisi finanziaria, iniziata nel 2007/2008, l’Italia tra il 1999 ed il 2007 fu caratterizzata da: un tasso di inflazione piuttosto stabile, sempre attestato intorno al 1,5%-2%; una forte riduzione del tasso di interessi sui titoli di stato a lungo termine (che si ridusse dal 13% del 1993 al 3% del 2006/2007); un debito pubblico che, grazie al basso tasso di interesse sui titoli di stato si abbassò fino a toccare il 103,47% nel 2007 ed, infine, una disoccupazione che tra il 1999 ed il 2007 crollò dall’11% al 6%.

Tutti questi dati, che risultano essere i principali indicatori macroeconomici per analizzare il benessere di una nazione, mostrano come il nostro paese, nonostante una classe dirigente di scarso livello, abbia guadagnato molto nel corso del primi anni dell’Euro. I giullari mediatici, invece, sostengono il contrario credendo che filosofeggiare su argomenti così importanti sia il modo giusto per spiegare ai cittadini la verità. Analizzando in modo erroneo addirittura alcune teorie portanti dell’economia internazionale, tra cui il principio di Marshall-Lerner, secondo cui la bilancia commerciale di un paese dipenda in modo diretto non tanto dalla svalutazione della moneta in sé, quanto dall’elasticità della domanda. Inoltre, tutti questi economisti dimenticano un fattore incredibilmente importante, che potremmo definire al giorno d’oggi IL FATTORE economico per eccellenza: il mercato. Non è, infatti, un caso che dal Luglio 2012, mese in cui Mario Draghi dichiarò l’Euro un processo irreversibile e spiegò ai media che la BCE avrebbe fatto tutto il necessario per salvare la moneta unica, i mercati hanno incominciato a rallentare il loro pressing sull’EuroZona. Non è infine un caso che poco più di due mesi fa il Premio Nobel per l’Economia sia andato a tre economisti americani che hanno portato avanti per anni interessanti teorie proprio sull’efficienza del mercato, evidenziando come sia proprio il mercato a dettare l’equilibrio economico mondiale e rimarcando quindi quel concetto, introdotto da Adam Smith per la prima volta nel 1759, della “Mano Invisibile”.

Da tutte queste piccole spiegazioni e confutazioni delle idee poco economiche e molto filosofiche degli economisti presi in questione possiamo quindi intuire come il principio di tutti i mali italiani non sia l’Euro ma sia l’incapacità del nostro paese, governato, controllato e organizzato da una politica vecchia e poco capace, di sapersi modernizzare attraverso politiche fiscali nuove, riforme strutturali e cultura liberale. In tutti i dibattiti televisivi il nostro paese viene spesso accostato alla Germania. Ricordiamoci che l’attuale “locomotiva d’Europa”, nel 1999 veniva additata dall’Economist come “il grande malato d’Europa” che necessitava di riforme strutturali per non collassare con la moneta unica. Tra il 2001 ed il 2006 il governo Schröder riformò tutto il sistema del lavoro e fiscale tedesco e il primo governo Merkel terminò tale percorso. I tedeschi pagarono caro tale processo riformativo, ma oggi godono di tale lungimiranza. In Italia bisognerebbe incominciare a raccontare la verità, a guardare la globalizzazione come qualcosa di positivo e affrontare i problemi in modo deciso, serio e forte, prendendo in considerazione i veri modelli da seguire: Schröder Docet. Se non si decidesse di fare ciò, Euro o non Euro, la fine sarebbe la stessa e per il mercato equivarrebbe alla D di Default.


Giovanni Caccavello

25 dicembre 2013

Stabilità, castello di carte in terra sismica


È stata approvata ieri l'altro anche al Senato una legge di stabilità che sembra lasciare in sospeso gli elementi che forse interessano maggiormente le famiglie e le imprese italiane.

Vediamo quindi di analizzarla nei suoi punti più salienti. La mole complessiva di questa manovra è aumentata, come era prevedibile, nel corso dell'iter parlamentare ed ammonta ora a un complessivo di 15 miliardi di euro. È inoltre previsto un incremento delle entrate pari a 2,1 miliardi prevalentemente a carico del settore finanziario.

A gioco fermo restano presenti ancora alcuni importanti nodi da sciogliere che danno una sensazione di palpabile mancanza di coraggio da parte del Governo Letta nell'affrontare tematiche calde che se prese di petto potrebbero effettivamente sciogliere il nodo gordiano in cui il paese si trova, prime fra tutte una spending review dagli obiettivi ambiziosi, ma i cui dettagli arriveranno solo a primavera e la riduzione della pressione fiscale che dovrebbe essere attuata grazie all'utilizzo di un fondo alimentato dai proventi della lotta all'evasione portata avanti grazie ad un accordo con la Svizzera per quanto riguarda il rientro dei capitali, che da adito a molti dubbi sulla reale fattibilità e non risulta per nulla scontato , e dalla stessa revisione della spesa.

Altre questioni da definire sono la tassa sui servizi (TASI) , di cui non sono ancora state precisate le aliquote e le eventuali detrazioni, e il capitolo casa su cui il Governo dovrà rimettere le mani con un decreto d'urgenza in seguito all'ingresso della legge di stabilità in Gazzetta Ufficiale.Insomma , lasciandosi andare ad un paragone goliardico , che rende però bene l'idea vista la provenienza territoriale dello scrivente, la stabilità del bilancio statale in questo periodo assomiglia molto a quella degli edifici puntellati nei centri storici emiliani colpiti dal sisma.


Nicolò Guicciardi

Buon Natale e felice anno nuovo

Da parte di tutti i Giovani per Fare vi auguriamo un buon Natale a tutti voi e alle vostre famiglie e un felice anno nuovo, che porti un reale cambiamento in questa situazione sempre più insostenibile e disastrata. Da parte nostra ce la stiamo mettendo tutta per permettere che ciò avvenga, ma c'è bisogno dell'aiuto di ognuno di voi per raggiungere tale scopo. Noi crediamo che questa Italia e questi italiani ce la possano fare e ce la faranno! 

24 dicembre 2013

Tetto agli stipendi pubblici: un regalo di Natale riuscito a metà

Abbiamo lavorato diversi giorni all'immagine che vedete qui accanto. Era stata creata per sensibilizzare l'opinione pubblica sugli stipendi scandalosamente alti che prendono alcuni dirigenti dello Stato italiano, molto più elevati degli stipendi di capi di stato come Obama, Merkel, Cameron o Hollande. Oggi, siamo contenti che la nostra immagine sia da rifare.

Infatti, ieri è stata approvata definitivamente dal Parlamento la Legge di Stabilità del triennio 2014-2016. Tra i punti della legge, c'è finalmente l'introduzione di un tetto massimo per il cumulo degli stipendi e delle pensioni dei dipendenti pubblici. Questo tetto coincide con lo stipendio del primo Presidente della Corte di Cassazione: ossia 302mila Euro. In parole povere, nessun dipendente pubblico potrà ricevere dallo Stato più di 302mila Euro lordi l'anno. Verranno conteggiati nel cumulo anche i vitalizi, seppure escludendo di questi "i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza prevista negli stessi."

Sia chiaro, il tetto agli stipendi pubblici rimane bello alto e comunque maggiore dello stipendio degli uomini più potenti del mondo: Obama (278mila Euro al cambio attuale), Merkel (290mila Euro), Cameron (250mila Euro) e Hollande (200mila Euro). Il risultato raggiunto è comunque un piccolo regalo di Natale di cui non possiamo che essere contenti. Ma non basta. Non si comprende ancora perché ci debbano essere papaveri dello Stato che guadagnano più del nostro Presidente della Repubblica (circa 248mila Euro). La petizione "Non più alto del Colle" di Fare per Fermare il Declino rimane ancora valida. Bisogna abbassare il tetto massimo degli stipendi pubblici allo stipendio del Presidente della Repubblica. Come vediamo, la campagna di Fare sta già dando dei frutti: è l'ora di portarla a termine.


Firma anche tu la petizione su: http://www.change.org/it/petizioni/non-pi%C3%B9-alto-del-colle

Enrico Miglino

23 dicembre 2013

Immigrazione all'italiana


Il deputato del Partito Democratico Kalid Chauki , ha cominciato da ieri a barricarsi a oltranza nel centro di prima accoglienza dell'isola di Lampedusa, in attesa di un intervento del Governo in grado di porre rimedio all'emergenza della situazione nei cosiddetti c.i.e.(centri di identificazione ed espulsione). Ad innescare tale gesto sono stati i filmati messi in onda in un servizio del TG1, dove venivano mostrate le condizioni inaccettabili in cui versavano i migranti appena sbarcati sull'isola siciliana, lasciati completamente nudi e al freddo, in attesa delle visite mediche.
Se dovesse andare in porto, questa misura potrebbe senza dubbio rivelarsi un notevole passo avanti nella gestione di un' emergenza che vede un paese costiero e ai confini dell'Europa come l'Italia, direttamente coinvolto. Risulta corretto però soffermarsi su alcuni dati circa la reale utilità di questi centri . Nel periodo compreso tra il 2008 e il 2010 la spesa complessiva per il mantenimento dei CIE ammontava a circa 68 milioni di euro , ma lo stanziamento al Fondo Inclusione Sociale , più utile socialmente in materia di integrazione, è stato pari a zero. In secondi luog , solo 3880 sono state le persone rimpatriate transitate nei centri, a fronte di un complessivo di circa il doppio.


È fuori discussione che il gesto di Chauki possa far prendere coscienza del non trascurabile problema da parte dell'opinione pubblica, ma allo stesso tempo è possibile che si possa alimentare ulteriori proteste da parte dei migranti che renderebbero la situazione ancora più critica. Il Governo ha quindi deciso di avviare misure di provvedimento urgente che prevedono una drastica riduzione dei tempi di permanenza nei CIE da 18 mesi a 30 giorni . Il viceministro dell' Interno Bubbico ha poi evidenziato un ulteriore paradosso per il quale chi è stato in carcere, una volta scontata la pena viene indirizzato ai CIE per l'identificazione anzichè essere direttamente espulso, cosi da accentuare ulteriormente il sovraffollamento di tali centri. Altri giuristi inoltre propongono da tempo che il trattenimento nei CIE sia circoscritto solamente a coloro per cui nessun altra misura alternativa come obbligo di dimora,consegna del passaporto e obbligo di presentazione alle forze dell'ordine, possa essere disposta.

Sarebbe quindi più utile ragionare in termini di integrazione, con stanziamento mirato di fondi necessari a tale obbiettivo, oppure mantenere lo status quo con una legge Bossi-Fini che rende perseguibili per favoreggiamento di reato di clandestinità anche i cittadini che si impegnano nel primo soccorso verso queste persone? 


Nicolò Guicciardi

22 dicembre 2013

Se In Italia ci fosse una Margaret Thatcher…


Poco più di otto mesi fa, all’età di 87 anni, si spegneva una delle figure più intriganti della seconda metà del XX secolo, nonché unica donna a diventare “Primo Ministro” britannico: Margaret Thatcher. Il mondo le rese i giusti onori (nonostante in molti festeggiarono la morte della “Dama di Ferro”) e moltissimi articoli, commenti e discussioni riaccesero il dibattito sulle politiche “monetariste” applicate dalla “Baronessa” nel corso degli anni ’80.

Lasciando da parte alcune scelte prese da parte dei governi Thatcher, soprattutto in ambito di Difesa (da ricordare il braccio di ferro sia contro l’Argentina per il controllo delle Falkland che contro l’IRA, organizzazione terroristica irlandese che si conclusero con la vittoria politica della Thatcher) ed evitando di inoltrarci troppo nel pensiero morale della “Iron Lady”, ci focalizziamo sull’aspetto più economico del “Thatcherismo”, che molto si rifà alle teorie neo-liberiste sviluppate nel corso degli anni ’60-’70 da molti economisti, tra cui Von Hayek e Friedman e che, secondo il sottoscritto, dovrebbero venir meno strumentalizzate sia dai media che dalla politica Italiana.

Guardando più da vicino lo sviluppo dell’economia del Regno Unito nel corso degli anni ’80 del secondo appena trascorso (dati ONS – Ufficio di Statistica Nazionale del Regno Unito) quando la Thatcher salì al potere l’inflazione era sopra al 20% mentre i disoccupati erano circa 1 milione e mezzo. Nel 1982, anno in cui le misure Thatcher incominciarono a fare effetto, l’inflazione era scesa al 6,5% mentre i disoccupati erano quasi raddoppiati rispetto a tre anni prima. Nel 1989, ultimo anno di governo Thatcheriano, l’inflazione era all’8% e i disoccupati tornati a quasi un milione e mezzo, dato che nel corso degli anni ’90 sarà destinato a ridursi ulteriormente grazie alle riforme del lavoro avviate proprio dalla “Dama di Ferro”. Oltre a questo, va tenuto conto come il debito pubblico del Regno Unito, grazie ad un aggressiva opera di privatizzazioni, liberalizzazioni, riduzione del cuneo fiscale (tasse dirette ed indirette) e tagli alla spesa improduttiva (a voi Italiani tutti questi temi dovrebbero suonare familiari, giusto?) si ridusse da circa il 45% al 28% del Prodotto Interno Lordo. I dati macro-economici danno quindi ragione alle politiche liberiste (secondo alcuni critici anche “iper-liberiste”) della Baronessa Thatcher.

Tra le varie misure economiche varate dall’ex “Prime Minister” (prima ed unica donna a ricoprire tale ruolo) un ingrediente di fondamentale importanza per il rilancio dell’economia britannica fu il massiccio programma di privatizzazioni avviato nel corso del quinquennio 1983-1987. Tale programma (esattamente l’esatto contrario, avete letto bene, l’esatto contrario di quello fatto dai Governi Italiani nel corso di questi ultimi anni) prevedeva la vendita di moltissime società dello stato (tra cui alcuni monopoli di stato) per una cifra attorno a 29 miliardi di Sterline e la vendita di milioni di residenze pubbliche per circa 18 miliardi di Sterline. Questo ovviamente seguito da liberalizzazioni di ampi settori del mercato e da una riduzione delle tasse (specialmente quelle dirette). Nel corso di quegli anni il Regno Unito privatizzò la British Airways, compagnia aerea di bandiera britannica, ad oggi, 26 anni dopo la completa privatizzazione, una delle più importanti compagnie al mondo con un introito di circa 11 miliardi di Sterline (circa 13 miliardi di Euro). Una decisione leggermente diversa da quella presa dal Governo Berlusconi nel 2008 che consegnò nelle mani dei suoi amici imprenditori (esempio classico del cattivo capitalismo italiano) una compagnia in via di fallimento e facendo pagare ai contribuenti (cioè noi) circa 4 miliardi di Euro per salvare una compagnia che dopo nemmeno 5 anni è stata nuovamente salvata dal governo Letta a causa delle costanti perdite.

Il programma Thatcher non si fermò però solamente a poche o “finte” privatizzazioni (ovvio riferimento alle ultime false privatizzazioni del governo Letta). La sua visione liberale dell’economia e la sua convinzione che lo stato dovesse svolgere solo ed esclusivamente un’opera di garante della nazione senza troppe intromissioni in ambito industriale la portò a vendere e a privatizzare una cinquantina di aziende che operavano in tutti i settori: dal gas, al petrolio, dall’elettricità all’acqua, dalle telecomunicazioni ad aziende automobilistiche e motori aeronautici e marini (Jaguar e Rolls Royce). Queste mosse politiche ed economiche si rilevarono di una lungimiranza incredibile e garantirono al paese un ventennio di tranquillità economica (dalla fine degli anni ’80 allo scoppio della crisi finanziaria). Come accennato in precedenza le privatizzazioni furono solo uno delle centinaia di provvedimenti dalla Thatcher per far ripartire un’economia al collasso ma svolsero un ruolo di fondamentale importante e nel corso degli anni fruttarono ai cittadini britannici diversi vantaggi tra cui minori costi (diretti ed indiretti), servizi migliori e molti posti di lavoro. Le privatizzazioni della Thatcher infatti aiutarono notevolmente lo sviluppo di giganti pubblici, controllati e gestiti in modo relativamente efficiente trasformando molte di quelle società ad essere attuali leader mondiali.

Se in Italia ci fosse una Thatcher, gli Italiani starebbero sicuramente meglio e alcuni tabù cronici tipici del capitalismo provinciale, corrotto e malato italiano alimentati da tutta la classe dirigente (manager, sindacati, politici) e dalla stragrande maggioranza dei media verrebbero meno consegnando agli Italiani possibilità economiche senza precedenti. Le politiche economiche liberali in Italia non sono mai state sviluppate in modo concreto e sensato. Per il bene degli Italiani è giunto davvero il momento di provarci. Ora o (forse) mai più.


Giovanni Caccavello

20 dicembre 2013

Non vi "azzardate"...


Nel decreto “salva Roma” riguardante gli enti locali, presente nella legge di stabilità in attesa di essere approvata alla Camera, balza oggi agli occhi un emendamento che ha già cominciato a far discutere aspramente. Stiamo parlando del provvedimento per cui verrebbero tagliati i trasferimenti ai comuni che tentano di combattere il vizio del gioco, tramite norme restrittive in materia, siccome genererebbero minori entrate per l'erario.

Asprissime e pesanti sono state le polemiche da parte del segretario del PD Matteo Renzi, che ha  definito questo emedamento una “porcata” che il suo partito bloccherà assolutamente, e del presidente della regione Lombardia, il leghista Roberto Maroni che parla di “comparsa degli spot elettorali di certi partiti e parlamentari, non appena si tratta di fare cassa”.
Proviamo ora ad analizzare il problema più nel dettaglio e cerchiamo di fare qualche riflessione a riguardo. La ludopatia nel nostro paese è da considerarsi una vera e propria piaga che comporta costi sociali molto elevati, pari all'incirca a sette miliardi di euro. Pare quindi di assistere ad una generale impotenza dello Stato verso le pressioni delle lobby del gioco. Come non ricordare infatti il condono di due miliardi e mezzo da parte del Governo Letta per quanto riguarda le imposte non versate dalle dieci principali società che in Italia controllano le slot machine.

Risulta quindi quanto mai assurdo, dopo che si applica una pressione fiscale già cosi gravosa per i cittadini, constatare un fine lucrativo anche su tale tipo di dipendenza che specialmente in un periodo di crisi economica come quello che stiamo attraversando, rende ancora più problematica la situazione di molte famiglie italiane.



Nicolò Guicciardi  

19 dicembre 2013

Forconi, torti e ragioni. La visione di Fare

Agicoltori, allevatori, camionisti, imprenditori, disoccupati, puntano i loro forconi metaforici (ma neanche tanto) contro i Palazzi del potere. Bloccano strade, fermano treni, minacciano negozianti per farli star chiusi, convincono poliziotti a togliersi il casco d’ordinanza. Ce l’hanno con tutti: sindacati, politici, l’Europa, ma soprattutto il governo. Grillo prova ad imbrigliarli esortando i poliziotti ad unirsi alla protesta, ma i Forconi se ne fregano anche di lui. I giornali li dipingono come pericolosi ignorantoni e la maggioranza silenziosa bloccata nel traffico continua a chiedersi: ma questi ora che diavolo vogliono?

Proviamo a fare chiarezza. Le manifestazioni partite il 9 dicembre non sono state portate avanti da un’unica organizzazione, ma da una serie di piccole sigle diverse: il Movimento dei Forconi, l’Associazione Italiana Trasportatori, Movimento Autonomo Autotrasportatori, Liberi Imprenditori Federalisti Europei (LIFE), Azione rurale Veneto, Cobas Latte, Comitati Riuniti Agricoli e NoCensura. Rileggendo il manifesto della protesta, questo magma multiforme pare compattato solamente da una rabbia comune contro: il Parlamento dei “nominati”, considerati illeggittimi dopo la sentenza della Consulta, contro la globalizzazione, che avrebbe “sterminato il lavoro degli italiani”, contro questo modello di Europa che ci avrebbe privato della sovranità monetaria. I sentimenti comuni a favore sono invece piuttosto vaghi: più democrazia e sovranità popolare. E’ forse anche per questo che il movimento si è già fratturato, tra l’ala oltranzista capeggiata dal CRA e affiancata da CasaPound, che ha “marciato” ieri su Roma e l’ala più ragionevole che raggruppa tutte le altre sigle e cerca in qualche modo di veicolare le idee attraverso il confronto con il governo e magari, in futuro, un partito. Alcune di queste sigle, prese singolarmente, avanzano diverse richieste specifiche e concrete che sono degne di considerazione: l’abbassamento delle accise sulla benzina, l’alleggerimento della pressione fiscale sulle imprese, la legalizzazione delle coltivazioni OGM. Qual è dunque la posizione di Fare per Fermare il Declino sulla protesta dei Forconi? Abbiamo chiesto lumi ad un membro della Direzione Nazionale del partito, Costantino de Blasi.

De Blasi, come valuta la protesta dei Forconi?
Positivamente da un lato, perché è un segnale molto forte che viene dato alla politica. Esprime un malessere diffuso, causato da un governo che non dà risposte alle partite IVA, alle attività produttive che stanno subendo una crisi molto grave. D’altra parte, lo valuto negativamente perché mi sembra che alla protesta manchi l’elemento propositivo. Ci sono istanze molto confuse e la cosa paradossale è che si chiede più intervento dello Stato quando è lo Stato in gran parte ad aver causato la situazione in cui ci troviamo.

In un video del Corriere.it si vedono alcuni manifestanti che minacciano dei commercianti perché tengano chiusi i negozi. Fare come si pone davanti a questo tipo di condotta?
E’ molto grave: chi ha voglia di lavorare, deve aver possibilità di lavorare e l’adesione forzata ad uno sciopero è un abuso. A mancanza di lavoro si risponde con ricerca di lavoro, piuttosto che degenerare la situazione fino alle estreme conseguenze. Pensare che i partiti che ora stanno discutendo la legge di Stabilità possano trovare soluzioni immediate è assolutamente folle. Manca la pragmaticità in queste proposte, manca la visione complessiva di quello che si potrebbe fare. Questa manifestazione dei Forconi non è la prima, ma si ripete da qualche anno e i risultati dal 2011 a questa parte sono stati nulli. Ad esempio, gli autotrasportatori da tre anni chiedono l’abbassamento delle accise sui carburanti e queste in tre anni sono aumentate di 15 centesimi

Se Fare fosse al Governo, l’abbassamento delle accise sui carburanti sarebbe una priorità?
Tutti i fattori che incidono sui costi della produzione e sulla pressione fiscale vanno ridotti. Le accise sono state per troppo tempo il borsellino su cui tutti i governi, di Destra e Sinistra, hanno messo mano per fare cassa, creando una situazione ormai intollerabile. E’ una situazione che deve terminare al più presto, anche se purtroppo non lo si può fare dall’oggi al domani. E’ necessario un piano complessivo che parta dalla riduzione e razionalizzazione delle spese e che di conseguenza porti ad una riduzione del carico fiscale complessivo. Le accise sui carburanti sono sicuramente una voce che va toccata, magari partendo da quelle più odiose e antiche come quella del 1935-36 della guerra in Etiopia o quella per il Vajont.

Se Lei fosse Ministro dell’Interno, quale condotta adotterebbe con i manifestanti che bloccano strade  e binari. Farebbe usare gli idranti o eviterebbe lo scontro?
Inviterei prima una delegazione a parlare, per ascoltare le loro richieste. Ci vuole fermezza, ma queste reazioni molto violente sono l’effetto di una distanza abissale tra i problemi delle persone e chi governa. Il governo dovrebbe accogliere le proposte che sono ragionevoli e spiegare le ragioni per cui alcune richieste non possono essere accolte. Un Ministro dell’Interno dovrebbe prima dare questi segnali e poi dopo specificare che ogni azione di tipo violento avrà una risposta pari ed uguale.

Avete intenzione di andare a parlare con i rappresentanti della protesta?
Ci sono già stati un paio di incontri un mese fa e abbiamo avuto la percezione di una protesta molto confusa. Io personalmente ho parlato con alcuni rappresentanti della LIFE Lombardia con  la quale probabilmente qualcosa assieme si farà. Loro si vogliono proporre come sindacato delle partite IVA, una cosa interessante. Hanno posizioni estremamente dure che però hanno oggettivamente un fondamento. Così stiamo parlando anche con Cobas Imprese che non partecipa ai Forconi ma ha già dato vita a manifestazioni nel 2013.

Fare come potrebbe rispondere alle richieste di LIFE e di Cobas Imprese?
Per esempio con delle proposte per tagliare la tassa più odiosa che ci sia: l’IRAP sulle imprese. L’IRAP aumenta il costo del lavoro, è un costo largamente indeducibile per le imprese e si paga anche in caso di perdite, perché dipende dal fatturato e non dal profitto. Vale oggi circa 32 miliardi di gettito. Abolirla subito è complicato, ma può essere tagliata in poco tempo di almeno un terzo.

Un casus belli della protesta è stata la sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale il Porcellum. Secondo Lei i Parlamentari sono illegittimi e devono andare a casa o fare prima una legge elettorale?
Noi siamo dell’idea che bisogna aprire una fase costituente. Bisogna fare modifiche costituzionali profonde e una legge elettorale nuova. Non abbiamo ancora elaborato una proposta elettorale, ci sono diverse forme possibili ma bisogna mettere soprattutto mano a quelle riforme che stimolino la crescita economica.

Azione Rurale protesta tra le altre cose perché in Italia è vietata la coltivazione ma non l’importazione degli OGM e di conseguenza gli agricoltori italiani ne risentono. Fare come si pone sulla questione degli OGM?
Siamo alle solite ipocrisie italiane. O ci adeguiamo completamente al mercato o non ci si adegua. Noi siamo per l’adesione completa al mercato e per una nuova legislazione sugli OGM. Fare è a favore della coltivazione degli OGM.

Uno dei collanti della protesta è la critica alla globalizzazione e all’Euro. Pensa che essa abbia avuto più effetti negativi o positivi per l’Italia?
L’Euro ha salvato per diversi anni l’Italia dalla bancarotta, basti considerare il fatto che, prima della moneta unica, il costo degli interessi del debito italiano era intorno all’11%, oggi siamo intorno al 5%. Le vere sfide sono altre, la globalizzazione è senz’altro una di queste. E vi si risponde non col protezionismo, ma con l’innovazione, lo sveltimento dei processi, l’alleggerimento fiscale sulle imprese: tutte cose che in Italia non sono state fatte. La Spagna che queste riforme è riuscita in parte ad attuarle, è uscita dalla recessione. L’Irlanda dopo la crisi profonda del 2008, con queste riforme ha ricominciato quasi subito a crescere. Se attui queste riforme rendendo il nostro sistema più flessibile, aperto e competitivo, tu dalla globalizzazione, dalla moneta forte hai da guadagnare perché paesi come il Brasile, l’India o la Cina stanno vivendo ora il boom economico che noi abbiamo vissuto sessant’anni fa.  

Perché abbiamo da guadagnare dalla moneta forte? Secondo i manifestanti, è proprio la perdita della sovranità monetaria che è tra le cause della crisi.

Fare moneta si tratta semplicemente di introdurre un’altra tassa: quella dell’inflazione. E noi non vogliamo introdurre nuove tasse. Non abbiamo bisogno di altra moneta, anzi in Europa c’è persino un eccesso di moneta circolante perché la politica monetaria della BCE negli ultimi due anni è stata espansiva. Il problema non è l’Euro, ma l’assenza di riforme in Italia che hanno impedito la produzione di ricchezza. Più che criticare l’Euro bisogna eliminare l’eccessiva burocratizzazione dell’Unione Europea, tutte quelle norme sui prodotti agricoli: dalla dimensione dei cocomeri alla forma delle banane. E’ questa l’Europa che va combattuta, quella dell’eccesso di regolamentazione, e ci batteremo per questo alle elezioni europee.

Mi dia una risposta secca: le prime tre riforme che attuerebbe Fare per risolvere la crisi?
Riduzione degli interessi sul debito con le dismissioni, cioè la vendita del patrimonio pubblico con strumenti finanziari che consentono di vendere in maniera intelligente parte del patrimonio pubblico.
Riduzione profonda della spesa dello Stato. Se le aziende sanitarie locali si uniformassero ai criteri di spesa delle tre regioni più virtuose in Italia (Emilia, Lombardia, Veneto), il risparmio annuo sarebbe pari a 9 miliardi l’anno. Con queste risorse, la terza riforma è un drastico taglio delle imposte, a partire dall’IRAP e dall’IRPEF.

Enrico Miglino

18 dicembre 2013

Web-Tax: l'ultimo incubo di un lungo sonno della ragione


“Advocates of Internet freedom have repeatedly warned us that Italy's traditional elites -- on both sides of the political spectrum -- are very uncomfortable with the Internet's ability to bypass the traditional media that they control.”

“I sostenitori della libertà di Internet ci hanno ripetutamente avvisato che le tradizionali elites italiane – di entrambi gli schieramenti politici – sono molto a disagio con l’abilità di Internet di bypassare i media tradizionali che controllano.”

Era Dicembre 2010, ricordate? Scoppiava il caso Wikileaks, e tra gli altri saltava fuori un cablogramma a firma dell'allora ambasciatore USA David Thorne. La critica era netta: le elites italiane sono a disagio quando devono confrontarsi con la capacità dei nuovi mezzi di bypassare la loro tradizionale rete di controllo, come Internet per l'appunto; e piuttosto che agire in collaborazione e coerenza con le autorità competenti sovranazionali… niente! La tentazione è forte, e ci scappa il colpo di coda della regolazione restrittiva ("Me ne frego!" avrebbe detto un goliardo di qualche decennio fa…).
Il decreto in questione era quello di Romani (Paolo, quello del processo per falso fallimentare della tv Lombardia7 per intenderci). In particolare il decreto nella sua prima stesura prevedeva per chiunque desiderasse fornire un "servizio di media audiovisivo" attraverso reti di comunicazione elettroniche la denuncia di inizio attività e l'autorizzazione da parte dell'autorità, nonché il versamento di una tassa di 3000 euro. Fortunatamente alla fine non è andata così.

Ma torniamo ai giorni nostri: BS non è più primo ministro, e apparentemente non c'è nessun conflitto di interesse in gioco, ma l'intolleranza alla libera concorrenza rimane.
La parola d'ordine è Web-Tax: non riesci a rendere competitive le aziende italiane perché oberate dalle tasse? Non hai la capacità di mediare un regime fiscale coerente in tutta Europa? Non importa! Puoi sempre improvvisare un nuovo regime impositivo: imporre di acquistare servizi pubblicitari solo presso soggettiaventi partita IVA italiana (chissenefrega del principio cardine di liberà di circolazione e di stabilimento in Europa); aggiungere nuovi sofisticati concetti su cosa comporti legalmente il passaggio di dati sulle reti di comunicazione (al diavolo gli accordi e le definizioni concordate a proposito di "organizzazione stabile" in un determinato territorio); fantasticare entrate al di sopra di ogni stima affidabile (ricordate la Tobin Tax?); ignorare beatamente che le cose si fanno in due: supponiamo questa follia diventi realtà, chi ci assicura che un domani anche Irlanda, UK, Germania, Francia etc non impongano alle aziende italiane operanti in quegli stati di dotarsi obbligatoriamente di partita IVA irlandese, inglese etc..? Vorrei vedere quanto sarebbe ancora conveniente alla fine di tutto…
Le questioni comunitaria e fiscale sono delicate, consiglio vivamente (anzi, leggeteli!) gli articoli di Tim Worstall su Forbes e di Piercamillo Falasca su Leoni Blog.
No, veramente, se vogliamo mettere ordine adeguando il funzionamento del sistema fiscale alla nuova realtà portata alla luce dal mercato dei servizi telematici è un conto; improvvisarsi novelli Don Quijote che emendamento in resta si lanciano contro i mulini dei giganti del web proclamando a gran voce la retorica del bravo burocrate che vuol far giustizia redistributiva dei ricavi in suolo patrio.. no grazie, che a pagar i danni saremmo solo noi, i Don Quijote al più si guadagneranno la bella mostrina da sfoggiare alle elezioni prossime venture.

Probabilmente non potremo più fare del gossip su ciò che pensa l'ambasciatore USA di questa nuova trovata, ma di sicuro potremo immaginarlo.

Addendum del 18/12: sembra che il governo stia ricevendo le critiche di questi giorni, il metodo è quello dei dilettanti allo sbaraglio: “ma sì dai, buttiamola lì, poi si vedrà…se se la bevono bene, altrimenti la cambiamo…” peccato che ci stiano coprendo di ridicolo nel frattempo. Rimanete sintonizzati per gli aggiornamenti futuri.

Certezza del diritto, paradosso italiano

Il Governo ha oggi approvato il decreto riguardante l'emergenza in cui versano i nostri istituti penitenziari e la sensazione è che si sia di fronte ancora una volta ad un modo abbastanza impreciso di affrontare tale problematica. Il provvedimento sarebbe mirato alla regolazione in entrata e in uscita dei penitenziari e secondo le stime si prevede che circa 7000 detenuti possano lasciare le carceri. Ciò si otterrebbe grazie al reinserimento dei tossicodipendenti tramite le comunità e al rimpatrio degli immigrati nei due anni finali della pena da scontare, in modo da poter attenuare il sovraffollamento delle stesse.
Detto questo, è importante soffermarsi e riflettere su cosa ne sarà della tanto decantata "certezza del diritto" in Italia. Sembra infatti un paradosso che uno stato di diritto per eccellenza come il nostro, i cui codici civile e penale sono costellati da un groviglio infinito di norme e disposizioni, non possa garantire la certezza della pena, e aggiungerei , in condizioni umane per coloro che commettono un reato.
Sia chiaro, non si vuole fare semplicemente una critica indiscriminata a tale provvedimento. Al suo interno esso contiene anche spunti interessanti, ad esempio il disegno di legge riguardante la giustizia civile per sveltire i cosiddetti "procedimenti lumaca" grazie a riti più snelli, mirati a ridurre i processi da tre a un anno, e l’introduzione di un giudice unico in appello per determinate materie. La lentezza della giustizia è d’altronde uno degli ostacoli più rilevanti agli investimenti economici stranieri nel nostro paese.
È bene però sottolineare che spesso questi tipi di provvedimenti, come ad esempio la legge del 2006 sull'indulto, non sortiscono l'effetto sperato, ma anzi si rivelano inefficaci se si confrontano le situazioni carcerarie pre e post normativa.
Risulta doveroso quindi ricordare al ministro Cancellieri e al Governo Letta, che in Italia abbiamo all'incirca una quarantina di istituti penitenziari compiuti ma inutilizzati, e in alcuni casi persino vigilati. Il loro utilizzo potrebbe senza dubbio restituire certezza del diritto al nostro paese e certezza di una pena da scontare in condizioni umane per buona parte dei detenuti o per coloro che versano in condizioni fisiche disagiate nelle carceri. Sarebbe quindi il caso di fare in modo che, almeno su questa problematica, il nostro paese non venga etichettato anche questa volta come sprecone.



Nicolò Guicciardi

17 dicembre 2013

Trasparenza, o mia trasparenza!

La notizia che oggi balza agli onori della cronaca è senza dubbio quella dell'indagine aperta verso il senatore del Popolo della Libertà-FI Maurizio Gasparri, accusato di peculato.
L'accusa riguarda l'appropriazione indebita di una somma pari a circa 600.000 euro in qualità di presidente dei senatori PDL, per intestarsi una polizza sulla vita presso la sede BNL del Senato della Repubblica.
Lo stesso Gasparri avrebbe poi restituito la somma in due tranche di bonifici da 300.000 euro l'uno, a seguito di specifiche richieste da parte della direzione amministrativa del Popolo della Libertà.
Come si è soliti dire in questi casi, la giustizia farà il suo corso e provvederà, se è il caso, a punire o ad assolvere il senatore pidiellino per tale accusa di reato.
È doveroso però in questo caso, soffermarci e riflettere un attimo sul concetto di trasparenza e quando è veramente necessario applicarla. Come ben sappiamo, i deputati e senatori del Movimento 5 Stelle, la trasparenza la stanno applicando o quantomeno cercano di applicarla, con una pignoleria e una precisione quasi paranoica. Basti pensare alla questioni riguardanti la dettagliata rendicontazione di tutti gli scontrini fiscali, anche se poi altri finanziamenti ben più consistenti, primi fra tutti quelli al blog del leader genovese, ben lungi dall'essere trasparenti e chiari.
L'interrogativo che ci si pone dopo la vicenda Gasparri è il seguente:  è veramente necessario applicare la trasparenza per piccoli dettagli, come fanno gli esponenti pentastellati, oppure sarebbe meglio utilizzarla in ben altre situazioni ben più fumose e meno alla luce del sole come quella sopra citata, o nel caso dei consigli regionali, primi fra tutti quello emiliano romagnolo e piemontese, che ultimamente ci hanno regalato non pochi scandali? 


Nicolò Guicciardi

16 dicembre 2013

Sfida Renzi-Grillo, prime scintille di cambiamento?

Ad una assemblea nazionale del PD anagraficamente ringiovanita, la cui location per i nostalgici era la stessa di quel famoso Antimeeting in cui Oscar Giannino esaltava l'elettorato di Fare, il neo segretario Matteo Renzi annuncia la ormai famosa "sorpresina" per Beppe Grillo.
Si tratta di un compromesso che potrebbe, per una volta nella politica italiana, riflettere una buona dose di concretezza utile a raggiungere il tanto acclamato cambiamento. Il segretario democratico sarebbe quindi disposto alla rinuncia anticipata dei rimborsi elettorali da parte del suo partito, in cambio di un appoggio pentastellato sulle riforme istituzionali come la nuova legge elettorale, la trasformazione del Senato in Camera delle Autonomie senza stipendi nè eletti e l'abolizione delle Province.
Grillo ha poi replicato, con il suo classico stile british, considerando questa una "scoreggina" piuttosto che una sorpresina e chiedendo elezioni immediate col vecchio Mattarellum, forse sfruttando l'onda della sentenza di illegittimità di parte del Porcellum, a cui seguirà poi una riforma elettorale portata avanti da
un parlamento non "incostituzionale".
A Grillo va però ricordato che anche il Mattarellum è una legge elettorale tutt'altro che perfetta e che come il Porcellum ha anch'essa lasciato dietro di se strascichi spiacevoli come la nascita delle scandalose "liste civetta" o il mantenimento di una logica proporzionale in un sistema per tre quarti maggioritario, che fu l'àncora di salvataggio per molti candidati "eccellenti", i cosiddetti "paracadutati"(per approfondimento consiglio caldamente la lettura di articoli a riguardo, del prof. Gianfranco Pasquino
dell'Università di Bologna).
Queste quindi sono state le prime "prove tecniche di cambiamento" subito dopo l'insediamento di Renzi alla segreteria del PD. Vedremo quindi se il "rottamatore" e il partito, o movimento per non urtare la sensibilità grillina, che rappresenta forse la più tenace opposizione al governo degli ultimi vent'anni, riusciranno a trovare un accordo che potrebbe sbloccare la non proprio rosea situazione attuale


Nicolò Guicciardi
Una giustizia lenta e inefficacia è un freno anche per l'economia. Tempi pachidermici per la risoluzione giudiziale di controversie commerciali = ZERO INVESTITORI




Giovani Per Fare cosa?

Giovani per Fare mira a riavvicinare i cittadini, soprattutto i giovani, ad una politica che non li rappresenta più e che nel corso degli ultimi quarant'anni ha tolto loro il futuro, la voglia di sognare, di crescere e di confrontarsi apertamente. Crediamo nell'assoluta libertà individuale che ha un solo limite: la libertà altrui. Crediamo nella totale libertà del cittadino di esprimersi e di formarsi qualunque sia il suo pensiero. Crediamo inoltre nella libertà economica perchè senza di essa la nostra economia continuerà a stagnare. Non vogliamo essere i soliti politicanti noiosi, bensì dei giovani che si mettono al servizio degli Italiani per dare loro una speranza nel poter fermare il nostro costante declino.