L’Italia sta vivendo un periodo di grande crisi e
difficoltà, causato in parte dalla situazione internazionale, in parte
dall’immobilismo che ha caratterizzato il nostro paese negli ultimi anni. Non
abbiamo risolto alcuni problemi alla base, e che vanno aldilà del debito
pubblico: le diseguaglianze sociali, l’economia in nero, la questione
meridionale, la burocrazia asfissiante, la criminalità, sono tutti elementi che
non hanno fatto altro che portarci in questa situazione. Risollevarsi non sarà
facile, anzi, è molto difficile, ma quello che è sbagliato è dire che l’Italia
è un paese senza futuro, in preda ad un inarrestabile declino, perché questo è
smentito dai fatti, e fa torto a chi lavora ogni giorno e metta la propria
intelligence nel nostro paese. Il declino è del sistema-paese, non di chi fa il
paese, che anzi continua, nonostante tutto, ad essere competitivo.
Come risulta chiaro, la tesi del declino viene avallata
dalle prestazioni disastrose del PIL nazionale. Tuttavia, questi non fa
distinzione tra il mercato interno, prostrato dalla crisi e dalle misure di
austerità, e le eccezionali prestazioni all’estero di imprese, del turismo e
dell’agroalimentare. L’Italia è uno dei più grandi paesi esportatori al mondo,
ed è anche uno dei paesi con più alta affluenza turistica. E’ in questa
difficoltà di valutare la situazione con indicatori economici tradizionali che
è nata e cresciuta questa convinzione, avallata dai grandi cambiamenti del
nostro decennio, ovvero la terribile recessione di questi anni e la concorrenza
sempre crescente dei paesi emergenti, ed alimentata dalla crescente
divaricazione tra i risultati – eccellenti – delle nostre imprese in campo
internazionale e lo sfaldamento progressivo del nostro sistema-paese, ormai
sempre più allo sbando.
Ciò che non emerge in maniera forte da questo clima di
confusione sono due tendenze, che fanno un po’ da ciambella galleggiante
indicando una strada che ci permetta di rimettere in carreggiata l’Italia:
1 - L’Italia non è una vittima della
globalizzazione, come tante volte si è detto in questi anni, anzi ha
profondamente modificato la sua specializzazione internazionale, recependo le
richieste del mercato globale e sapendosi modificare per soddisfare quei
bisogni. Il nostro paese ha saputo costruire del valore aggiunto in settori –
quelli tipici del Made in Italy: tessile, abbigliamento, calzature, mobili,
nautica – in cui la concorrenza fortissima dei paesi emergenti ci dava già per
spacciati. E siamo stati in grado di creare addirittura delle nuove specializzazioni,
come nella meccanica – il settore commerciale più importante in termine di
esportazioni – nell’innovazione dei prodotti per l’edilizia, nei mezzi di
trasporto che non siano gli autoveicoli e nella chimica-farmaceutica. È così
possibile spiegare perché, mentre nel 1999 eravamo quinti nell’UE-27 per saldo
commerciale normalizzato nei manufatti, mentre nel 2012 siamo saliti al terzo
posto.
2 - Proprio grazie a questa nuova specializzazione –
mentre la domanda nel mercato interno crollava a causa della crisi mondiale e
della recessione, e con essa PIL ed occupazione – le imprese italiane hanno
fatto registrare risultati eccezionali in termini di esportazioni. Secondo dati
dell’Eurostat, tra il 10/2008 e il 06/2012 il fatturato estero dell’Italia è
cresciuto di più di quello della Francia e della Germania, e addirittura nel
2012 siamo stati tra i soli cinque paesi al mondo (assieme a Cina, Germania,
Giappone e Corea del Sud) ad avere un fatturato estero superiore ai 100
miliardi di dollari (escludendo i prodotti alimentari). Su un totale di 5117
prodotti (il massimo livello possibile di disaggregazione statistica del
commercio mondiale) l’Italia si è piazzata ai primi tre posti per attivo
commerciale estero in ben 946 casi. Se andiamo a guardare nei paesi extra-UE,
considerati il terrendo fondamentale su cui si giocherà la partita del
commercio mondiale nei prossimi anni, l’Italia è addirittura seconda tra i
paesi UE, dopo la Germania, per surplus commerciale di manufatti non
alimentari, con un attivo di 63 miliardi nel 2012. Tutto ciò mentre nel mercato
interno domanda ed offerta crollavano per cause indipendenti – evidentemente –
dalla competitività delle imprese stesse.
Non solo l’export sfata la concezione dell’Italia come un
paese in declino. Il settore del turismo in Italia viene additato dalla
concezione comune come uno dei grandi fattori della crisi del nostro paese. Di
vero c’è, ancora una volta, che la recessione ha portato pesanti tagli alle
spese degli italiani, ma l’afflusso degli stranieri è in aumento. Se non
consideriamo indicatori quantitativi approssimativi (come quello degli arrivi
internazionali di turisti, che è falsato dalla presenza dei grandi hub
internazionali e dai viaggi di lavoro) scopriamo che in Italia, per numero di
pernottamenti di turisti stranieri, è seconda solo alla Spagna, ed è
addirittura prima se consideriamo solo i paesi extra-UE (54 milioni di notti).
Il nostro paese è la meta turistica preferita dai visitatori di Cina, Giappone
e Brasile, e alla pari con la Gran Bretagna per i visitatori provenienti dagli
USA; siamo secondi, invece, sempre per arrivi, da Canada, Sudafrica, Australia
e Russia.
Invece delle sirene che preannunciano il disastro imminente,
bisogna ascoltare le richieste e i bisogni di chi propone questo nuovo Made in
Italy, persone che stanno sviluppando un nuovo modello, che pone al centro
quella che è sempre stata un’eccellenza nazionale: la qualità. Persone che
vedono la bellezza come un fattore produttivo importante e la cultura,
associata alle nuove tecnologie, come un incubatore d’impresa; una via italiana
alla green economy in cui l’innovazione è un concetto che investe anche i
settori produttivi più tradizionali, e in cui ad esempio il nostro patrimonio
di eccellenza agroalimentare diventa volano per il turismo e viceversa. Un
paese, insomma, che mette come ingredienti principali la qualità della vita, la
coesione sociale, il capitale umano, i saperi del territorio.
Da questo deve ripartire l’Italia, dal cosiddetto
“ecosistema produttivo”. Dalla qualità, da questa via italiana alla green
economy, Come? Incentivando la ricerca, l’ICT e l’innovazione non solo
tecnologica ma anche organizzativa, comunicativa, di marketing. Sostenendo,
attraverso azioni di sistema, gli sforzi delle nostre imprese di farsi strada nel
mercato internazionale nel manifatturiero e nelle filiere culturali e creative.
Attraverso una politica industriale incentrata sui concetti di base da
valorizzare nella nostra economia – la manifattura, il turismo, la cultura,
l’agricoltura – e che poggi con particolare attenzione sui concetti di
sostenibilità e di green economy come vie da seguire. Attraverso una politica
fiscale che sposti, se proprio non si possano cancellare, le tassazioni dal
lavoro verso il consumo di risorse, la produzione di rifiuti, l’inquinamento.
Sviluppando politiche in grado di incentivare la formazione, l’inclusione
sociale e l’apporto di giovani e donne alla società e all’economia del nostro
paese. Sostenendo gli investimenti fatti per competere nel mercato globale
invece che quelli che fanno speculazione sui mercati finanziari. Facendo in
modo che la burocrazia non possa più rappresentare un peso per le aziende.
Creando possibilità alle piccole realtà d’impresa di poter operare meglio
unendosi in reti o consorzi.
Il turismo ne gioverebbe e farebbe ancora meglio di oggi se
potesse disporre di migliori infrastrutture di trasporto e logistiche, e se gli
aeroporti italiani fossero meno periferici sulle linee intercontinentali. Se lo
sforzo d’immagine, di promozione e comunicazione non fosse polverizzato e
spesso inconcludente, se le strutture ricettive fossero ammodernate e connesse
alle nostre eccellenze italiane (culturali, paesaggistiche, produttive).
La lotta all’illegalità, alla pirateria e alla
contraffazione dev’essere posta al centro e diventare una priorità assoluta.
Così come lo devono essere le misure in grado di creare delle reti distributive
sempre più forti, anche all’estero. Non si può prescindere, inoltre, dal dare
liquidità all’economia nazionale, allo scopo di far ripartire i consumi e
sostenere le famiglie, e per garantire alle imprese il credito necessario a
rilanciare gli investimenti, anche attraverso un nuovo ruolo della Camera
Depositi e Prestiti.
Insomma, per concludere, la via dell’uscire dalla crisi c’è,
ed è guardando ai tanti valori positivi che ancora abbiamo, e che incarnano la
domanda e i bisogni di questo rinnovato Made In Italy. Si tratta, in fondo, di
lavorare come si è sempre fatto in tutti questi secoli sul nostro territorio,
cioè puntando sulla qualità. È una rivoluzione culturale, a cui l’Italia deve
essere messa in condizione per coglierla. Pena, il declino, veloce e
inesorabile.
Franco Cappuccio
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