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16 marzo 2014

Jobs Act: la flessibilità che manca

Di recente, il Presidente Renzi ha presentato una serie di riforme – ancora allo stato di bozza – che avrebbero l’obbiettivo di riassorbire la disoccupazione in Italia e dare un forte contributo alla crescita: il cosiddetto Jobs Act. Questo provvedimento, estremamente (volutamente?) vago ed eclettico, va a toccare una lunga serie di argomenti: si va dalla questione del prezzo dell’energia, alla revisione della spesa fino ad una serie di estremamente (volutamente?) generici piani industriali. La “ciliegina sulla torta” è costituita dalla definizione di una nuova tipologia contrattuale che dovrebbe andare a sostituire la maggior parte dei contratti utilizzati attualmente nel nostro mercato del lavoro. 

Sarà vera gloria? Difficile dirlo, fino a che non usciranno informazione più dettagliate a proposito dei singoli provvedimenti. Difficilmente, però, a detta di chi scrive, potrà portare i risultati che si propone, data la natura e la gravità della crisi in cui ci troviamo. Il mercato del lavoro italiano è altamente schizofrenico, e sicuramente potrebbe beneficiare di una razionalizzazione delle tipologie contrattuali. Il costo dell’energia è sicuramente un limite alla competitività delle nostre imprese. Ma la disoccupazione non verrà riassorbita fino a che persisterà il forte squilibrio fra il costo del lavoro e la produttività, vero limite alla competitività di questo paese. Il grafico sotto illustra il problema.



Fonte: The 2012 Labour Market Reform In Spain, OECD

Come è possibile vedere, dall’entrata nell’euro il “Sistema Italia” ha progressivamente e costantemente perso in competitività: in paragone ai nostri “competitors”, il costo del lavoro ha continuato a salire, mentre la produttività è rimasta praticamente ferma. Ma la cosa che più fa riflettere è che, mentre negli altri paesi questo squilibrio è andato riducendosi a seguito della crisi (impressionanti sono i guadagni di competitività di Irlanda e Spagna), in Italia ha seguito la traiettoria opposta. Purtroppo, il tanto decantato Jobs Act non propone risposte credibili a questo problema, che può essere rivisto solo attraverso una profonda revisione delle relazioni sindacali.

In Italia si è sempre risposto alla necessaria maggior flessibilità richiesta da un mondo sempre più dinamico, integrato e competitivo aumentando la “precarietà”, ovvero rendendo più facili i licenziamenti – ovviamente, limitandosi ad una parte ben definita del mercato del lavoro, non vuoi mai fare un dispetto alla CGIL. Tutti voi ricorderete bene come, nei due decenni appena passati, non si sia fatto altro di parlare dell’abolizione del totem dell’Articolo 18. Ma se andiamo a vedere i dati, il mercato del lavoro italiano non risulta essere particolarmente “ingessato”, almeno in confronto alle altre economie europee. Di seguito, riporto alcuni dati presi dagli “Indicators of Employment Protection” (proprietà OECD). Sorprendentemente, l’Italia non sfigura, e anzi, secondo certi parametri, in Italia risulta più semplice licenziare che in Germania o, addirittura, in Olanda.

Dove però l’Italia è rimasta estremamente rigida, è nella contrattazione di secondo livello. Nonostante gli ultimi accordi stipulati fra le parti sociali (nel 2009 fra Confindustria, CISL e UIL e nel 2011 fra tutte le parti sociali, CGIL inclusa), la contrattazione aziendale rimane marginale, potendo svolgersi esclusivamente in settori delegati dal contratto nazionale. Questo “appiattimento” delle retribuzione sullo stesso piano lungo aree estremamente eterogenee per quello che riguarda produttività delle imprese e costo della vita, e soprattutto la loro rigidità rispetto al ciclo economico, porta notevoli problemi: scarsi incentivi all’innovazione, alla formazione dei dipendenti e, in genere, all’aumento della produttività totale dei fattori. In più, porta uno scollamento del salario dalla produttività, disincentivando le assunzioni: in caso di shock negativi, le imprese reagiscono chiedendo cassa integrazione o licenziando.

Recenti articoli accademici hanno analizzato l’effetto, in termini di riallineamento costo del lavoro-produttività, che riforme atte a incentivare e potenziare la contrattazione di secondo livello hanno avuto in Germania (Dustmann et al. 2014), e Spagna (OECD 2013). I risultati sono molto positivi: per quanto riguardo la Spagna, l’OECD calcola che almeno il 50% della riduzione del costo del lavoro spagnolo sia da imputare alla riforma della contrattazione aziendale. Per quanto riguarda la Germania, le tanto decantate riforme Hartz avrebbero avuto un effetto marginale per quanto riguarda il forte incremento di competitività tedesco nella seconda metà degli anni 2000, che sarebbe da attribuire, invece, al potenziamento della contrattazione di secondo livello. Spostare il fulcro della contrattazione da livello nazionale a quello aziendale, permise un forte ancoramento del costo del lavoro alla produttività dei lavoratori.

Uno dei temi ricorrenti di questa campagna elettorale permanente che è l’attuale legislature è stato, per l’appunto, il problema del costo del lavoro e della scarsa produttività del ”Sistema Italia”. Difficilmente la soluzione potrà arrivare con interventi tampone come la riduzione di una manciata di miliardi del cuneo fiscale, fatta, oltretutto, a debito. Renzi ha garantito più volte che il suo è un “governo di cambiamento”, atto a “rottamare” i vecchi legami e le vecchie logiche del suo partito. Potrebbe iniziare, per l’appunto, dalla lobby di riferimento del PD, la CGIL. E proporre una radicale riforma della contrattazione collettiva, cosa di cui questo paese ha dannatamente bisogno.


Giandomenico Ciccone

2 commenti:

  1. Il punteggio per individual+collective dismissal in alcuni paesi e' ben piu' basso di quello dei paesi citati.

    New Zealand: 1.01
    United States: 1.17
    Canada: 1.51

    Anche in Germania, Paesi Bassi, Spagna, e Francia la protezione e' eccessiva.

    In Germania per ottenere un posto di lavoro bosogna riempire moduli e fare collooqui per mesi. Le aziende ci pensano 100 volte prima di assumere perche' sanno che poi licenziare qualcuno e' molto complicato.

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