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4 marzo 2014

Rivalutazione di Bankitalia: regalo innocente o aiuto di Stato?

La fiamma del dibattito acceso dalla legge n.5/2014 che ha rivalutato le quote di Bankitalia è stata recentemente alimentata da una lettera che la Commissione UE ha inviato al nostro Ministero dell'Economia. La Commissione, su istanza dell’europarlamentare Rinaldi (IDV), ha chiesto chiarimenti, perché l’operazione con cui il Parlamento ha alzato il valore delle quote della banca centrale da 300 milioni di Lire a 7,5 miliardi di Euro, potrebbe configurare un aiuto di Stato confliggente con la normativa comunitaria.

Qualora la Commissione dovesse giungere a tale conclusione, la bollente agenda di Renzi sarebbe ulteriormente gravata dall’onere di ridisegnare il provvedimento. Nella fervida attesa di una risposta sulla faccenda da parte del Tesoro, cerchiamo di capire perché l’operazione è stata oggetto di una richiesta di chiarimenti da parte della UE. Gli aiuti di Stato sono definiti dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, come finanziamenti a favore di imprese, concessi dallo Stato o da imprese pubbliche, che siano in grado di arrecare un concreto vantaggio ai loro destinatari, tale da generare un impatto sulla concorrenza ed incidere sugli scambi tra Stati membri. Per questo, gli aiuti sono di norma vietati. Soltanto superando il vaglio della Commissione, che valuta la sussistenza di una ragione per una deroga al divieto (per esempio, la necessità di ovviare a disastri provocati da calamità naturali, o a risolvere problemi occupazionali), gli aiuti possono essere autorizzati.

Perché la rivalutazione di Banca d’Italia potrebbe configurare un aiuto di Stato? Nonostante i partecipanti al capitale di Bankitalia siano principalmente banche private, non vi sono dubbi che, dal punto di vista soggettivo, essa costituisca un’impresa pubblica. Già nella legge bancaria del 1936, infatti, la Banca d’Italia è definita all’art. 20 come “istituto di diritto pubblico”. Nonostante l’avvenuta abrogazione della legge bancaria ad opera del Testo Unico Bancario del 1993, l’inclusione della nostra banca centrale tra le “Autorità Creditizie” del Titolo I, di fianco al Ministero dell’Economia e delle Finanze ed al CICR (Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio) conferma la sua disparità rispetto alle semplici banche private. 

La sua essenza di istituzione pubblica, al di là delle funzioni di vigilanza e di controllo sugli istituti di credito, è da rinvenirsi nel monopolio ad essa concesso nella creazione della moneta, ovvero in quello che viene storicamente denominato “signoraggio”. La funzione di emissione in via originaria di denaro è riservata in via assolutamente esclusiva alla Banca d’Italia a partire a partire dal 1926, quando i provvedimenti intitolati “alla tutela del risparmio” hanno sancito la sua sovranità sulle altre banche.
Dal 1893, anno della sua fondazione, sino allo scorso gennaio, il valore delle quote di Banca D’Italia è rimasto immutato alla cifra di 300.000.000 di lire, pari al suo capitale sociale originario. È chiaro che l’importo delle quote, anche nel suo aggiornamento ad € 156.000,00, rappresenta un valore storico e simbolico. D’altronde, sinora, non si era mai provveduto ad una rivalutazione di tale stima in quanto le quote di Banca d’Italia, non sono (o forse è meglio dire “non erano”) alienabili. Il ricavato del signoraggio viene destinato in parte alla costituzione ed al rafforzamento delle riserve ordinarie e straordinarie ed in parte allo Stato. Soltanto una esigua parte degli utili veniva distribuito sotto forma di dividendi alle banche ed agli altri partecipanti.

Il logico motivo per cui solo una minima parte delle risorse è stata di volta in volta destinata alle banche partecipanti è il seguente: i ricavi di Bankitalia provengono esclusivamente dall’attività di creazione di moneta e non da attività di investimento delle banche private. In una società privata, i dividendi vengono distribuiti ai soci in quanto il profitto dell’attività d’impresa deriva dal conferimento delle risorse economiche degli stessi, che, investendo per creare un'organizzazione di mezzi e di persone finalizzata allo svolgimento di un’attività economica, godono dei ricavi che tale attività genera. Attraverso il trucco contabile operato con la legge 5/2014, il denaro che prima era stato accantonato a favore del Tesoro, è diventato capitale di Banca d’Italia, le cui quote sono intestate, per lo più, ad istituti di credito privati.

In apparenza, l’operazione sembra meramente contabile, non determinando di fatto un trasferimento di liquidi. Ma l’ingente incremento di valore delle quote determina, come conseguenza, un rafforzamento del patrimonio delle banche, oltre ad un cospicuo aumento dei dividendi distribuiti. Il valore complessivo delle partecipazioni, infatti, è passato da 300 milioni di Lire a 7,5 miliardi di Euro. Se si considera che la remunerazione massima delle partecipazioni è stata fissata nel 6% del valore nominale derivante dalla rivalutazione, ciò significa che ogni anno, a discrezione dei vertici di Banca d’Italia, 450 milioni di Euro potrebbero essere distribuiti alle banche. In questo senso, colgono il segno coloro che, nelle scorse settimane, hanno definito questa operazione “un regalo alle banche”.

Il fatto che gli istituti di credito partecipanti al capitale di Bankitalia, a fronte di un investimento praticamente nullo effettuato quasi un secolo fa, possano godere gratuitamente dei proventi dell’attività di creazione della moneta svolta dalla Banca d’Italia, può essere parafrasato efficacemente con le parole pronunciate più di un mese fa da Boldrin, Bisin e Moro: “Sussidiamo banche private con i proventi del signoraggio o no?” Se pensate che i regali prospettati alle banche da questa operazione siano finiti, ebbene, vi sbagliate: secondo il testo della legge, infatti, da un lato, è proibito ad ogni partecipante di detenere più del 3% delle quote della Banca d’Italia e, dall’altro, l’istituto centrale può acquistare temporaneamente le proprie quote per salvaguardare il patrimonio.

Ciò comporta che istituti come Unicredit e Intesa San Paolo (ma anche, per esempio, Generali, Cassa di Risparmio di Bologna, Carige), che detengono quote ben superiori al 3%, siano “costrette” a piazzare sul mercato l’eccedenza, naturalmente al valore derivante dalla rivalutazione. In caso non riuscissero a vendere le quote in eccesso, nessun problema: sarebbe Banca d’Italia a riacquistarle. Altri profili di ambiguità sono legati alla tassazione sostanzialmente agevolata prevista per le plusvalenze derivanti dalla rivalutazione, che sconteranno il 12,5% come i titoli di Stato, anziché il 20% come gli altri strumenti finanziari. Insomma, tirando le somme, pare di poter dire che, effettivamente, c’è puzza di aiuto di Stato. Attendiamo “fiduciosi” la risposta del Tesoro.


David Mascarello

1 commento:

  1. Sono stati citati BODRIN,BISIN,MORO....possibile attendere commissione UE, per sapere se sono aiuti alle banche o NO?

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